Sette, 22 gennaio 2021
Teresa Ciabatti parla del suo nuovo romanzo Racconta l’adolescenza attraverso il filtro della mezza età. Sembra quasi che si tratti di due momenti speculari… «Come l’adolescenza, la mezza età rende difficile dimenticare il corpo, ti costringe a pensarci. Gli uomini che raccontano la mezza età sono sempre tutti vigorosi, vero? La donna di mezza età in genere è raccontata come una madre. A me interessava costruire un giardino delle vergini suicide, ma abitato da vergini suicide di mezza età. Mostrare cosa succede quando si perde la giovinezza, la bellezza. Che poi, se mi chiede cos’è la bellezza…». Glielo chiedo. «Non ne ho idea. So che quando finisce la giovinezza, la bellezza la perde anche chi non l’ha mai avuta: si accorcia la possibilità di desiderarla. Da ragazza mi dicevo: dopo l’estate tornerò, stupenda, con i capelli biondi, abbronzatissima… Piano piano, quello che desideri si rivela irrealizzabile. Fino a qualche anno fa il mio sogno era la villa con la piscina». E ora? «Ho cambiato desideri. Che ci faccio, con la piscina? Mi devo preparare alla vecchiaia». Non è un po’ prematuro? «Resta una fantasticheria, ma sto sempre su immobiliare.it. Ora però guardo solo le case su un piano, senza scale… l’idea della vecchiaia ti cambia. Non perdono solo i belli, quelli che la giovinezza l’hanno vissuta veramente; perde anche chi non l’ha avuta, perché a quel punto è chiaro che non l’avrà mai». Chi si salva? «La mia voce narrante si sente giovane perché le è arrivato il successo: tutti la cercano, lei vendica il suo senso di inadeguatezza, ma il suo corpo invecchia. E poi c’è Livia, che contiene tante donne, tante età. Ho trattato bellezza e giovinezza come se fossero anomalie della mente: infatti l’unica a mantenerle per sempre, mentre gli altri sono destinati alla vecchiaia, è Livia, che ha subito danni cerebrali, non ha memoria e rimane sempre uguale. Ho una fascinazione per le persone non consapevoli». Com’è nata l’idea del romanzo? «Matrigna», il romanzo uscito nel 2018 per Solferino «Matrigna», il romanzo uscito nel 2018 per Solferino «Da un caso clinico: la storia di un’ex insegnante scozzese, Jo Cameron. Dopo un’operazione all’anca scoprirono che non sentiva dolore a causa di un’anomalia genetica legata alla memoria. Il dolore è memoria del dolore. Se non avessimo memoria saremmo più felici? Mi interessava partire da studi scientifici, non volevo che fossero cose campate in aria. Devo ringraziare anche i reportage che ho fatto per La Lettura sui disturbi del sonno, sull’anoressia. Questo romanzo ho iniziato a scriverlo prima di saperlo, proprio attraverso quei viaggi nella malattia. Uno scrittore deve concentrarsi sulle sue ossessioni poetiche». Cosa c’è qui delle sue ossessioni? «Come in tutti i miei libri, c’è un microcosmo, un gruppetto di amiche che è una catena di rispecchiamenti e mostra, in piccolo, come funziona la società: il potere, il sopruso, la prevaricazione, l’invidia; e c’è un po’ di Bel Ami, per me il romanzo fondamentale. E una prima persona spavalda, un po’ come ne La più amata». Sono stata felice di ritrovarla. «La più amata ha ricevuto una risposta aggressiva. Se fossi stata davvero quella voce narrante, l’avrei presa in modo baldanzoso… ma non sono quella voce, io sono una paurosa. Ero finita in un cortocircuito: scrivere un romanzo spacciandolo per memoir, poi rimanerci male se la gente ci crede. Non ero pronta, è stato un atto di spavalderia prematuro. Non avevo considerato le conseguenze. Mi sono detta: non scriverò mai più con quella voce lì». E invece. «Ho capito che avevo lavorato tanti anni proprio per arrivare a sapere che era quello il genere di analisi che volevo fare: non indicare il male, ma farmene carico. Così sono tornata a questo io sfacciato. Non so se vivrei meglio se somigliassi alla mia voce; sicuramente, vivrei di più». Forse questa voce sfrontata, per esistere, ha bisogno delle sue paure? «Credo di sì. Ognuno si sceglie il proprio ritmo di vita, il proprio spazio. Io non ho avuto una vita piena. Ho imparato a circondarmi di persone — mio marito, le amiche — che lo capiscono. Ma una cosa che rivendico è che l’immaginazione vale da esperienza, e la mia vita è fatta quasi interamente di immaginazione. Non è che uno deve vivere per forza tutto. Io ho un fratello gemello, i nostri genitori ci portavano a sciare, c’era quest’idea che i bambini dovevano essere capaci, allenati. Insomma, in montagna facevamo lezioni di sci private, solo noi due. Lui andava giù a sci uniti, io non riuscivo neanche a spazzaneve. Il maestro era talmente ammaliato dal prodigio che ci portava su, alla pista nera, e io rimanevo in cima alla seggiovia, a piangere. Gli toccava portarmi giù a spalle». «Finalmente a 14 anni son caduta, mi sono rotta un legamento. Mai più sci! Volevo solo rimanere nel mio spazio di vita lenta, e compensare con l’immaginazione, perché era la cosa che mi piaceva di più fare; poi è diventato un lavoro, mentre mio frate
Teresa Ciabatti, quando le dico che vorrei rimandarle il testo di quest’intervista per correggere insieme eventuali inesattezze prima della pubblicazione, mi dice di no. Non vuole rileggere affatto, mi chiede anzi di inventare, di «tradirla a ogni parola». Chi mai può fare una richiesta del genere, se non una persona capace di esporsi con spericolato, fiducioso autolesionismo? Esattamente quello che fa Ciabatti in tutti i suoi romanzi. Dopo Matrigna, fiaba nera su una madre ribelle all’istinto materno, uscito per Solferino nel 2018, il 26 gennaio torna in libreria con Sembrava bellezza, per Mondadori: il titolo è suo, «mi è venuto subito, è la prima volta che succede. Volevo che evocasse qualcosa di perduto, che sarebbe impossibile trattenere».
È un romanzo sulle metamorfosi dell’età, sul deflagrare violento della giovinezza, sui ruoli che si rovesciano. La bella della scuola, Livia, reginetta di un liceo dei Parioli negli Anni Ottanta, desiderata e invidiata, si trasforma in una reietta proprio perché rimane imprigionata in una giovinezza perenne; mentre la protagonista, l’invidiosa, diventa una scrittrice di successo, e si ritrova, senza accorgersene, sulla soglia della mezza età.
Teresa Ciabatti parla del suo nuovo romanzo
Racconta l’adolescenza attraverso il filtro della mezza età. Sembra quasi che si tratti di due momenti speculari…«Come l’adolescenza, la mezza età rende difficile dimenticare il corpo, ti costringe a pensarci. Gli uomini che raccontano la mezza età sono sempre tutti vigorosi, vero? La donna di mezza età in genere è raccontata come una madre. A me interessava costruire un giardino delle vergini suicide, ma abitato da vergini suicide di mezza età. Mostrare cosa succede quando si perde la giovinezza, la bellezza. Che poi, se mi chiede cos’è la bellezza…».
Glielo chiedo.
«Non ne ho idea. So che quando finisce la giovinezza, la bellezza la perde anche chi non l’ha mai avuta: si accorcia la possibilità di desiderarla. Da ragazza mi dicevo: dopo l’estate tornerò, stupenda, con i capelli biondi, abbronzatissima… Piano piano, quello che desideri si rivela irrealizzabile. Fino a qualche anno fa il mio sogno era la villa con la piscina».
E ora?
«Ho cambiato desideri. Che ci faccio, con la piscina? Mi devo preparare alla vecchiaia».
Non è un po’ prematuro?
«Resta una fantasticheria, ma sto sempre su immobiliare.it. Ora però guardo solo le case su un piano, senza scale… l’idea della vecchiaia ti cambia. Non perdono solo i belli, quelli che la giovinezza l’hanno vissuta veramente; perde anche chi non l’ha avuta, perché a quel punto è chiaro che non l’avrà mai».
Chi si salva?
«La mia voce narrante si sente giovane perché le è arrivato il successo: tutti la cercano, lei vendica il suo senso di inadeguatezza, ma il suo corpo invecchia. E poi c’è Livia, che contiene tante donne, tante età. Ho trattato bellezza e giovinezza come se fossero anomalie della mente: infatti l’unica a mantenerle per sempre, mentre gli altri sono destinati alla vecchiaia, è Livia, che ha subito danni cerebrali, non ha memoria e rimane sempre uguale. Ho una fascinazione per le persone non consapevoli».
Com’è nata l’idea del romanzo?
«Da un caso clinico: la storia di un’ex insegnante scozzese, Jo Cameron. Dopo un’operazione all’anca scoprirono che non sentiva dolore a causa di un’anomalia genetica legata alla memoria. Il dolore è memoria del dolore. Se non avessimo memoria saremmo più felici? Mi interessava partire da studi scientifici, non volevo che fossero cose campate in aria. Devo ringraziare anche i reportage che ho fatto per La Lettura sui disturbi del sonno, sull’anoressia. Questo romanzo ho iniziato a scriverlo prima di saperlo, proprio attraverso quei viaggi nella malattia. Uno scrittore deve concentrarsi sulle sue ossessioni poetiche».
Cosa c’è qui delle sue ossessioni?
«Come in tutti i miei libri, c’è un microcosmo, un gruppetto di amiche che è una catena di rispecchiamenti e mostra, in piccolo, come funziona la società: il potere, il sopruso, la prevaricazione, l’invidia; e c’è un po’ di Bel Ami, per me il romanzo fondamentale. E una prima persona spavalda, un po’ come ne La più amata».
Sono stata felice di ritrovarla.
«La più amata ha ricevuto una risposta aggressiva. Se fossi stata davvero quella voce narrante, l’avrei presa in modo baldanzoso… ma non sono quella voce, io sono una paurosa. Ero finita in un cortocircuito: scrivere un romanzo spacciandolo per memoir, poi rimanerci male se la gente ci crede. Non ero pronta, è stato un atto di spavalderia prematuro. Non avevo considerato le conseguenze. Mi sono detta: non scriverò mai più con quella voce lì».
E invece.
«Ho capito che avevo lavorato tanti anni proprio per arrivare a sapere che era quello il genere di analisi che volevo fare: non indicare il male, ma farmene carico. Così sono tornata a questo io sfacciato. Non so se vivrei meglio se somigliassi alla mia voce; sicuramente, vivrei di più».
Forse questa voce sfrontata, per esistere, ha bisogno delle sue paure?
«Credo di sì. Ognuno si sceglie il proprio ritmo di vita, il proprio spazio. Io non ho avuto una vita piena. Ho imparato a circondarmi di persone – mio marito, le amiche – che lo capiscono. Ma una cosa che rivendico è che l’immaginazione vale da esperienza, e la mia vita è fatta quasi interamente di immaginazione. Non è che uno deve vivere per forza tutto. Io ho un fratello gemello, i nostri genitori ci portavano a sciare, c’era quest’idea che i bambini dovevano essere capaci, allenati. Insomma, in montagna facevamo lezioni di sci private, solo noi due. Lui andava giù a sci uniti, io non riuscivo neanche a spazzaneve. Il maestro era talmente ammaliato dal prodigio che ci portava su, alla pista nera, e io rimanevo in cima alla seggiovia, a piangere. Gli toccava portarmi giù a spalle. Finalmente a 14 anni son caduta, mi sono rotta un legamento. Mai più sci! Volevo solo rimanere nel mio spazio di vita lenta, e compensare con l’immaginazione, perché era la cosa che mi piaceva di più fare; poi è diventato un lavoro, mentre mio fratello non è diventato un maestro di sci. Quindi, voglio dire, a che cavolo serviva quello sci? Con mia figlia, tutti a dirmi: deve fare nuoto. Alle gare arrivava ultima, io le dicevo: ma è un risultato stupendo! Chi è abituato a vivere poco, a vincere nell’immaginazione, è più attrezzato per le sconfitte, per le delusioni; non ti possono rovinare la vita».
Nella premessa lei dice: i fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro.
«L’avvertenza, come i ringraziamenti, fa già parte del romanzo. Mi interessa l’ambivalenza tra realtà e finzione. Quando cerchiamo di raccontare una cosa che ci sembra nostra, è già un tradimento: la memoria tradisce, rielabora, per sopravvivere. L’autobiografia è impossibile, tutto quello che abbiamo sono ricostruzioni al servizio della nostra sopravvivenza. Il che non significa che siano edulcorate: a volte ci servono i traumi, per darci una giustificazione. Ma l’elaborazione del passato è già una riscrittura. E alla fin fine, cosa importa distinguere il reale dall’immaginato? Non importa nella vita, figurarsi in un romanzo… Lo so, vado di nuovo incontro al rischio che questo libro sia preso per un’autobiografia».
È pronta, stavolta?
«Assolutamente no! (ride). Per me però la letteratura deve essere proprio questo: il rischio che un’invenzione finisca scambiata per verità».
Le donne che racconta sono atipiche in letteratura; non nella vita, però.
«Dalle donne si pretende sempre coerenza, molto più che dagli uomini. Si pretende che siano modelli. Penso a Doris Lessing: un modello per tante, intellettuale, femminista, scrittrice eccezionale. Ma in lei quante contraddizioni c’erano? C’era la madre pessima che abbandona una figlia, e quella straordinaria che ne adotta un’altra. La vera liberazione è poter contenere tanti ruoli. Io penso che il sentimento verso sé stessi debba essere contraddittorio; che sia importante vergognarsi».
Nel suo libro è molto presente il tema della vergogna. Un’emozione sociale e insieme intima, difficile da confessare.
«La vergogna è essenziale non solo in quello che scrivo, anche proprio nella mia vita. Da adolescente, si figuri, quando sono approdata al liceo dei ricchi, ai Parioli: io truccatissima, con lo zainetto a koala, mentre tutte le ragazzine avevano il bauletto Naj Oleari… Ma non sono mai importanti i motivi reali della vergogna: ci si vergogna per come ci si vede, indipendentemente da come si è. Non so se sia un sentimento prevalentemente femminile, certo caratterizza molto la femminilità. Ma certe volte penso che sia esasperata oggi l’idea che bisogna amarsi, accettarsi senza vergogna. Per la mia formazione è stato importante, invece, l’odio per il mio corpo, la mia persona. Bisogna essere capaci anche di vergognarsi: la vergogna serve alla costruzione della personalità. Mi ero appena trasferita a Roma da Orbetello, a sedici anni, quando mi invitano alla prima festa, e sull’invito c’è scritto: abito da sera. Io non avevo idea che esistessero i vestiti da sera: allora essere di paese voleva dire veramente essere di paese. Insomma, mia mamma compra la stoffa, mia nonna, sarta, mi cuce questo vestito agghiacciante. Sopra nero, sotto a righe, con un fioccone… Però non ho avuto la percezione che le persone mi guardassero. Pochi anni dopo, incontro una ragazza, ricostruiamo di avere amici in comune, lei mi dice: ma quindi anche tu stavi alla festa di Beatrice… Ma te la ricordi quella vestita da prima comunione? Io lì per lì non capisco; ma dai, mi fa lei, quella col fioccone! Era diventata la barzelletta della scuola. Ero io, ovviamente».
E glielo ha detto?
«Non ho avuto il coraggio. Capisce? Ero stata la barzelletta della scuola. Ma questo non fa di me un agnellino, una vittima, perché io ero una belva!».
Ma nel libro racconta del suo zainetto col koala, e di un suo gesto molto generoso…
«Sì, e quella cosa è vera: l’ho regalato, insieme a tutti gli oggetti della mia infanzia, a cui ero attaccatissima, a due bambine, le figlie di un cantante di strada. È stato l’unico vero atto di bontà della mia vita. Ho visto dalla finestra queste bimbe, ballavano, un quadro di felicità tale che ho detto: ecco le bambine a cui consegnare la mia infanzia. Ma questo non fa di me una persona buona».
Nessuno è del tutto buono.
«E neanche cattivo. Come scrittrice mi interessa proprio questa contiguità fra chi ferisce e chi subisce; spesso, la stessa persona».
Torniamo alla vergogna, alla ragazzina che si sente inadeguata. È cresciuta invidiosa?
«Certo. Quel senso di inadeguatezza è una cosa che ti può scatenare una reazione di cattiveria di ritorno, sì… Quando le persone prendono troppo sul serio la mia voce narrante aggressiva, credo che sia perché è una risposta all’offesa, con trent’anni di ritardo. Però la verità è che la vergogna – la ragazzina cicciona con il vestito da comunione – poi torna, da qualche parte».
E può anche trasformare la ragazza con il fiocco in una scrittrice.
«Penso che sia questo che mi ha fatto diventare scrittrice: aver allenato uno sguardo da testimone, mai da protagonista. Io non sono mai stata protagonista di niente».