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 2021  gennaio 22 Venerdì calendario

Intervista a Daniel Barenboim

Daniel Barenboim non teme di scendere dal sublime olimpo della musica per affrontare, con iniziative e interventi, la concretezza pesante del mondo. Formidabile pianista e applaudito direttore d’orchestra, è un fenomeno unico per eclettismo e spessore, oltre che per la lunghezza straordinaria della sua carriera.
Nato nel 1942 a Buenos Aires, diede il primo concerto a sette anni e ne aveva dieci quando si trasferì in Israele. Oggi, dopo innumerevoli conquiste, abita a Berlino, dove dirige la Staatsoper e ha creato un’Accademia per giovani musicisti in cui, «oltre alla musica, si studiano cultura generale e filosofia», riferisce Barenboim durante l’intervista telefonica. Fin dal 1965 è presente al Festival di Salisburgo ogni estate, inclusa quella del 2020, quando vi ha diretto la “sua” West-Eastern Divan: una “orchestra-utopia” (è lui a definirla così) che accoglie strumentisti arabi e israeliani «in un progetto non politico ma umanistico, che lancia un messaggio di dialogo e condivisione tramite la musica», afferma il maestro, il quale sarà di nuovo a Salisburgo nel ’21 sul podio della Divan.
Nel frattempo, come tutti, patisce la situazione della pandemia ed è in ansia per le sorti degli artisti, colpiti dal blocco delle rappresentazioni.
Spiega che la sua ultima direzione «è stata una Carmen a inizio marzo, presentata a Berlino in streaming e senza pubblico». Per l’anno beethoveniano, come pianista, avrebbe dovuto suonare a Vienna tutte le Sonate di Beethoven, «ma i concerti sono stati cancellati e ho deciso di registrare nuovamente l’intero ciclo, che avevo già inciso».
In luglio ha organizzato un festival di musica contemporanea a Berlino, «invitando dieci compositori, tra cui l’italiano Luca Francesconi, a presentare nuovi lavori nella Boulez Saal. Gli autori hanno dato gratis il loro contributo, nel segno di una grande solidarietà sociale e musicale».
Maestro Barenboim: la rivedremo in Italia, paese a cui lei è molto legato e dov’è stato direttore musicale alla Scala?
«Mi mancano l’entusiasmo e l’attivismo delle stagioni scaligere!
Chi è nato in Argentina come me ha un nesso profondo con l’Italia.
Secondo me l’Argentina è l’unica regione italiana dove non si parla la vostra lingua… Certo che tornerò da voi, con gioia immensa. Sarò al San Carlo di Napoli dal 20 al 30 luglio con la West-Eastern Divan. Faremo concerti, prove aperte e dibattiti, sia nel teatro che in luoghi d’interesse storico e artistico della Campania».
Nelle faticose contingenze attuali, qual è la sua prospettiva sugli sviluppi della vita culturale in Occidente?
«Mi preoccupa il fatto che i governi non pensino mai alla cultura come a un valore irrinunciabile. Il declino si avvertiva già prima dei gravi problemi provocati dal Covid, e ora lo streaming sembra essersi trasformato nel futuro della musica, ma non va bene. Può essere solo un rimedio provvisorio che non sostituisce la ricchezza dell’ascolto dal vivo. Quanto ai giovani musicisti, studiando diventano bravi violinisti o oboisti, ma la loro cultura complessiva viene trascurata. Beethoven è stato eseguito molto nel 2020 per via dell’anniversario, ma per suonarlo sarebbe necessario conoscere le idee di Goethe e Schiller, che sono parte fondante dell’universo beethoveniano. Questo si tende a dimenticarlo, e anche il pubblico è sempre più impreparato. Negli anni Settanta Arthur Rubinstein mi raccontò che la maggioranza dei suoi spettatori, a inizi 900, suonava a casa le musiche di Chopin…».
Crede che l’Unione Europea abbia responsabilità in tal senso?
«Sì. L’Europa, che nacque su basi filosofiche e culturali, ora sembra concentrarsi solo su obiettivi economici. È stato un errore non aver messo subito l’accento sull’educazione culturale nei paesi della Ue, perché se c’è qualcosa che questo continente ha più degli altri, per quantità e qualità, è la cultura.
Sono convinto che alle radici della crisi europea ci sia la mancata diffusione di una concezione della cultura estranea a particolarismi disgreganti».
È nemico dei nazionalismi?
«Credo nel patriottismo, nell’essere fieri della propria terra. Ma trovo rischioso il nazionalismo culturale.
Se i tedeschi dicono che, per interpretare la musica tedesca, va colto un elemento teutonico intrinseco, sono d’accordo. Però, quando negli anni Trenta si sosteneva che solo un tedesco può capire la musica della Germania, si finiva per cadere nel fascismo. La grande musica deve uscire dai confini di una nazione. Il non riconoscerlo mina il concetto stesso d’Europa».
Il suo filosofo di riferimento è stato sempre Spinoza. Può esserci d’aiuto pure oggi?
«La sua metafisica è uno strumento di liberazione del pensiero. Bisogna oltrepassare il materiale e il tangibile per capire sia l’essenza di un soggetto sia il suo rapporto con altri soggetti, che si tratti di persone o di un governo, di una fuga di Bach o di un avvenimento storico».