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 2021  gennaio 21 Giovedì calendario

Nino Agostino, i pm chiedono l’ergastolo per Madonia

Andava in cerca di latitanti, era diventato una fonte segreta di Giovanni Falcone nel periodo delle indagini su Gladio e il delitto Mattarella e con Cosa Nostra faceva il “doppio gioco”: a volere morto Nino Agostino, ufficialmente solo un piantone del commissariato San Lorenzo, in realtà un agente “dalla parte dello Stato”, furono insieme Cosa Nostra e pezzi di servizi deviati, per tappare la bocca a un poliziotto che dava la caccia a Totò Riina ed era venuto a conoscenza di “inconfessabili e segreti legami tra mafia, polizia, servizi, coinvolgendo anche soggetti appartenenti alle alte sfere”.
Dopo 31 anni di silenzi, depistaggi e omertà istituzionali, i pg di Palermo, Nico Gozzo e Umberto De Giglio, chiedono l’ergastolo per il boss Nino Madonia, esponente di una famiglia mafiosa con radici solide nelle collusioni con l’intelligence deviata e allo stesso tempo esecutore e mandante di un duplice delitto (con Agostino, il 5 agosto 1989 venne uccisa anche la moglie, Ida Castelluccio). Quello stesso Madonia “delegato da Riina a mantenere i contatti con i Servizi segreti”, come ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile della famiglia Agostino, secondo cui Nino Madonia, che però per questo omicidio non è mai stato inquisito, è anche il killer del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. La ricostruzione probatoria compiuta dai pm traccia le ultime settimane di vita di un agente al centro di una rete fittissima di rapporti sottotraccia (con Falcone, Contrada, con ambienti imprecisati che lo spedivano in missioni camuffate da una valigetta 24 ore a Trapani), al lavoro dentro gli uffici di un commissariato “diventato una succursale dei servizi”, e braccato dagli 007 e da Cosa Nostra, che negli ultimi giorni di vita viveva in continuo stato di allerta con la pistola sul comodino. Una ricostruzione, questa, assolutamente consequenziale, dicono i pm, “con la frattura che subito dopo l’omicidio si registra nella polizia”: mentre Arnaldo La Barbera, l’agente Rutilius, e il suo collaboratore, Guido Paolilli, iniziano le manovre depistatorie, il questore dell’epoca, Fernando Masone (che diventerà capo della Polizia) dichiara a Repubblica: “Questo sembra avere tutti i connotati di un delitto preventivo di alta mafia”. “Da una parte il Questore che avalla alla stampa con la sua autorevolezza la versione – rispondente al vero – che quello di Agostino è un omicidio di alta mafia – chiosano i pm –; dall’altra La Barbera e Paolilli depistano le indagini sulla inconsistente pista dell’omicidio per una questione di donne”. Un depistaggio proseguito l’anno dopo da La Barbera, che tenta di scaricare la responsabilità su Vincenzo Scarantino, suggerendogli di “accollarsi il duplice omicidio” (vicenda per la quale La Barbera non è mai stato inquisito). Agostino nel 1989 tentò il colpo grosso contro i corleonesi sotto attacco dal “golpe” interno tentato da Vincenzo Puccio, che serrano le file barricandosi in una mini commissione permanente a vicolo Pipitone, regno dei Galatolo: e lì va a curiosare Nino Agostino che scopre uomini dello Stato a fianco dei boss. “Quanto alla tipologia di segreti che Agostino ebbe modo di conoscere – ha aggiunto il pm durante la requisitoria – si consideri (…) che egli vide Bruno Contrada e Giovanni Aiello (il famigerato ‘faccia di mostro’, ndr) incontrarsi con i Madonia e i Galatolo”. E fu Agostino, secondo la pentita Giovanna Galatolo, a fornire ai mafiosi un orario errato sulle abitudini di Falcone nella sua villa dell’Addaura, consentendogli di sfuggire all’attentato: “(..). Lo disse mia zia Concetta. Seppi sempre dalla stessa fonte che per questo motivo doveva morire. E dopo la sua morte (…) mi convinsi, parlandone sempre con mia zia Concetta e mia madre, che Agostino aveva fatto il ‘doppio gioco’ per sapere di più dalla mafia’’.
Tra gli atti citati dai pm a sostegno dell’accusa, infine, anche le prove della collusione con la mafia di Bruno Contrada, la cui condanna definitiva è stata ritenuta dalla Corte europea “improduttiva di effetti penali”: per i pm il verdetto non ha “inciso sulla veridicità e valenza probatoria dei fatti storici accertati posti a fondamento della condanna”.