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 2021  gennaio 21 Giovedì calendario

I 100 anni del robot

Ora che i robot stanno per conquistare il mondo, è davvero interessante andare a rileggere quanto scriveva 100 anni fa l’uomo che ha inventato la parola robot: il giornalista e drammaturgo ceco Karel Čapek. Nel suo dramma R.U.R. (Robot Universali Rossum), rappresentato per la prima volta a Praga il 25 gennaio 1921, ci sono già tutti i dubbi che ci angustiano: i benefici del progresso superano sempre i pericoli? Se un robot farà il nostro lavoro saremo più felici? E le macchine che progettiamo a nostra immagine e somiglianza acquisiranno mai una coscienza di sé?

In R.U.R. Čapek immaginava che uno scienziato, il dottor Rossum, si ritirasse in un’isola per produrre esseri semi-umani da impiegare nei lavori pesanti, in modo da liberare l’umanità dalla fatica. Il termine «robota», che fu suggerito allo scrittore dal fratello Joseph, indicava il lavoro forzato imposto alla plebe dai re feudali del Medioevo. Impastando in un pentolone un misterioso «protoplasma», Rossum creava parti di organismo umano da assemblare, un po’ come aveva immaginato nel 1818 Mary Shelley in Frankenstein. L’unica parte dell’uomo non disponibile nell’organismo di questi nuovi schiavi era quella più inafferrabile: l’anima. «Quale operaio – scrive Čapek - è migliore dal punto di vista pratico? È quello che costa meno. Quello che ha meno bisogni. Rossum inventò l’operaio con il minor numero di bisogni. Dovette semplificarlo. Eliminò tutto quello che non serviva direttamente al lavoro. Insomma, eliminò l’uomo e fabbricò il Robot».
Sono gli stessi robot che oggi stanno dentro a un bancomat o a una pompa di benzina, che assemblano le auto o guideranno un camion. Secondo una ricerca della Bank of America, il 47% dei lavori fatti dall’uomo può essere automatizzato. Nella società di Čapek liberata dalla fatica le cose non vanno però come il dottor Rossum sperava: la gente si impigrisce, diventa succuba dell’indolenza e del vizio e anche la natalità diminuisce, un po’ come sta avvenendo oggi. Quelli che ancora lavorano, i robot, acquistano invece sempre più potere, si ribellano agli uomini e dominano il mondo.
?apek avrebbe potuto finirla qui, e l’astrofisico Stephen Hawking, convinto che l’intelligenza artificiale sopravanzerà presto quella degli umani, condannandoli all’estinzione, lo avrebbe considerato uno dei suoi autori preferiti. Ma un finale così negativo forse non avrebbe funzionato al botteghino, e R.U.R si conclude con i robot che scoprono quanto sia piacevole il modo di riprodursi degli umani e, grazie a questa nuova conoscenza, sviluppano sentimenti amorevoli e solidali, acquisendo l’anima.
È straordinario quanti aspetti del rapporto tra l’uomo e le sue creature Čapek abbia individuato in anticipo. I robot di R.U.R. sono biologici e gli scienziati oggi lavorano a strutture bio-ibride che mescolano tessuti e cellule viventi per creare organismi cibernetici. Siamo appena all’inizio, e le prospettive sono entusiasmanti e inquietanti insieme.
Anche il nostro rapporto con i robot è simile a quello raccontato dallo scrittore ceco. All’inizio, ci piace vederli mentre si comportano come noi: l’entusiasmo globale che ha accolto settimane fa il filmato dei robot danzanti di Boston Dynamics non è diverso dagli applausi che nei circhi accoglievano elefanti o scimmie che facevano cose da esseri umani. I robot ci piacciono fino a quando cercano di somigliarci, perché possiamo ridere di loro. Ma esiste un punto, chiamato dallo studioso di robotica giapponese Masahiro Mori la «valle perturbante», nel quale la sensazione di familiarità causata da un robot antropomorfo diminuisce con il crescere del realismo. Un robot troppo uguale a noi finisce di divertirci e ci impaurisce, come avviene osservando la replicante in minigonna Q2 realizzata in Giappone, o quando rivediamo in tv il film Blade Runner di Ridley Scott.
Secondo molti studiosi, un robot biologico non farebbe in tempo ad acquisire la supremazia sull’umanità immaginata da Čapek, perché sarebbe presto vittima della selezione naturale: le altre specie viventi hanno imparato da milioni di anni a sopravvivere e avrebbero la meglio su qualunque parvenu che diventa mansueto appena scopre il sesso. I robot meccanici avrebbero invece più possibilità di farcela, perché imparano in fretta. Tempo fa, il giornale inglese The Guardian ha pubblicato un bell’articolo, scritto bene, argomentato e convincente, sulle ragioni per le quali non dovremmo avere paura dei robot. Lo aveva scritto il GPT-3, un sistema che impara dal linguaggio umano. Per ora solo a scrivere articoli, in futuro non si sa.