L’Arena di Verona, 19 gennaio 2021
Biografia di Arrigo Cipriani raccontata da lui stesso
«Sono l’unico uomo al mondo che si chiama come un bar, anziché viceversa», ride di sé Arrigo Cipriani, rimirando dalle finestre di casa, davanti alla Giudecca, la facciata palladiana della basilica del Redentore, «che cambia colore a ogni ora del giorno». Il 13 maggio compirà 90 anni. Non lui: l’Harry’s bar di Venezia. «Mio papà diceva che nacque di venerdì. Sbagliato: ho controllato, era un mercoledì». Cipriani è fatto così: ilare quanto inflessibile, con sé stesso prim’ancora che con gli altri.
Il padre Giuseppe era nato a Verona il 4 novembre 1900 da una famiglia poverissima, ultimo di otto figli. Anche Arrigo fu partorito nella nostra città, il 23 aprile 1932, e infatti parla tuttora un veronese purissimo, per nulla imbastardito dal veneziano. Il genitore lo fece battezzare con il nome, tradotto in italiano, del bar che da allora è il più famoso al mondo. Un omaggio al suo cliente, e poi socio, Harry Pickering, al quale nell’estate del 1929 aveva prestato 10.000 lire per consentirgli di tornare negli Stati Uniti.
A Giulietta, madre di Arrigo alias Harry, si ruppero le acque mentre si trovava nella casa paterna, «al capezzale di mia nonna, che stava morendo». Il nonno, Gaetano Andolfi, socialista di vecchia data e fervente antifascista, era un ferroviere. Ovviamente il patron dell’Harry’s bar non può avere alcun ricordo diretto di quel lieto evento, che per i coniugi Cipriani segnò l’arrivo dell’ultimogenito, l’unico maschio dopo Bruna e Carla, detta Carlina, ma anche Tinta in seguito alle nozze con il regista Tinto Brass, oggi entrambe defunte. «I nonni abitavano alle Cancellate, appena fuori Porta Vescovo, in una strada un po’ in salita». Siccome sono nato a 100 metri di distanza, credo che si trattasse dell’osteria Alla Cancellata, con stallo per i cavalli, all’incrocio fra via Betteloni e via Barana, strada che in effetti ha una certa pendenza. Cipriani torna in città per far visita alla cugina Wilma, residente nei pressi del Teatro Romano. È la figlia di uno dei fratelli di suo padre Giuseppe, Enrico, che lì in Borgo Venezia, in via Maestro Martino, aveva aperto un calzificio, ora trasformato in residence. Poiché i Cipriani sono gente «co l’èstro maturlàn de sta Verona», per dirla con Turcaine, al secolo Attilio Turco, poeta un po’ dimenticato, in famiglia si registra una singolare inversione onomastica: Giuseppe, 54 anni, unico figlio maschio di Arrigo, è nonno di un nipote che si chiama Harry.
Da quel baretto in calle Vallaresso, a due passi da piazza San Marco, appena 35 metri quadrati con il soffitto alto 2 e mezzo, notificato al ministero dei Beni culturali come monumento d’interesse nazionale, è nato un impero che dà lavoro a 4.000 persone e comprende 21 locali, da New York a Città del Messico, da Los Angeles a Londra, da Riyadh a Hong Kong, con quattro sale per banchetti da 1.500 posti ciascuna nella sola Manhattan, e un pastificio Cipriani fondato da Arrigo nel 1985.
<b>Quanti clienti riesce a mettere a tavola in 35 metri quadrati?
</b>Con la saletta soprastante, aperta nel 1960, circa 150. Con i Dpcm del governo Conte, zero. Da quando è scoppiata la pandemia, ho tenuto aperto l’Harry’s bar non più di un mese, mezze giornate incluse.
<b>Non può distanziare i tavoli.
</b>Furono disegnati da mio padre con una perfetta proporzione corpo, braccia, gambe, come le sedie. La gente muore perché negli ospedali non si aprono mai le finestre. Da noi c’è un impianto di aerazione da 22.500 metri cubi l’ora. In 60 minuti cambiamo l’aria totalmente 17 volte. E nessuno avverte il freddo: il pavimento in travertino ha una temperatura costante di 19 gradi.
<b>Perbacco.
</b>Dopo il Sessantotto, gli architetti hanno pensato solo alla forma, anziché all’uso. Il nuovo ponte Morandi si regge su 43 piloni in ricordo delle 43 vittime del crollo. E se fossero state 200? Che faceva Renzo Piano, 200 piloni?
<b>Di quanto è in rosso?
</b>L’Harry’s bar fattura 7,8 milioni l’anno. È andato in fumo l’85 per cento. Dal governo sono arrivati a dicembre 100.000 euro per compensare in parte le perdite del 2020 rispetto al 2019. Gli 80 dipendenti sono tutti in cassa integrazione. Non so quanti posti di lavoro potrò salvare. Pago l’affitto anche se il locale è chiuso.
<b>I muri non sono suoi?
</b>No, degli eredi di Edgardo Morpurgo, presidente delle Generali, che li ricevette come liquidazione. Prima di noi c’era un magazzino di cordami. Fu mia madre a trovare questo posto. Spezzò una maledizione: quelli che aprivano bottega in calle Vallaresso fallivano tutti.
<b>Quanto versa di canone?
</b>Sono 55.000 euro al mese. Da tempo tratto con la proprietà per farmelo ridurre. Dopo 89 anni, penso di averne diritto.
<b>Tutti i suoi tre figli si occupano di ristorazione?
</b>No, solo Giuseppe. Carmela è avvocata e scrive libri per l’infanzia, mentre Giovanna, anche lei laureata in Legge, è stata inviata della Rai. Intervistò Yasser Arafat e Tarek Aziz. Smise per fare la mamma. Ha aiutato il fratello per l’Harry Cipriani di New York, dove non paghiamo l’affitto all’hotel Sherry Netherland perché ci considera un blasone.
<b>Parliamo di suo padre Giuseppe.
</b>Era figlio di un manovale che a Verona si spaccava la schiena per 80 centesimi al giorno. Nel 1904 mio nonno decise di emigrare per fame in Germania, nel Baden-Württemberg. Trovò lavoro come muratore, a 23 marchi la settimana, cinque volte quello che guadagnava in Italia. La nonna s’ingegnava facendo da mangiare agli italiani. I tedeschi li chiamavano bonariamente <i>itaka</i>. Alla vigilia della Prima guerra mondiale quel nomignolo divenne un’offesa, così il nonno rientrò a Verona. Mio padre trovò lavoro prima da Molinari e poi da Tommasi, due delle migliori pasticcerie. Montava a mano le uova dalla mattina alla sera, per 3 lire a settimana. Fu arruolato e mandato al fronte ma ebbe fortuna: il 4 novembre 1918, mentre si trovava ad Ala, il conflitto finì. Quel giorno compiva 18 anni.
<b>E che cosa fece?
</b>Tornò a casa, si comprò un frac e divenne cameriere nei migliori alberghi: Gatto Nero, Torcolo, Gabbia d’oro. Poi salì di grado peregrinando negli hotel di varie località fra Italia, Francia e Belgio. Vi rimaneva al massimo 6 mesi, il tempo d’imparare ciò che non sapeva. Finché non approdò al Monaco di Venezia, distante appena 3 metri da quello che sarebbe diventato l’Harry’s bar. Nel 1926 sposò Giulietta. Il viaggio di nozze durò un giorno. A Padova credettero di visitare la Basilica del Santo, salvo scoprire anni dopo che avevano visto un’altra chiesa. In serata arrivarono a Venezia, dove l’indomani mio padre prese servizio all’hotel Europa-Britannia. Fu il proprietario a dirgli: «Lei deve fare il barman».
<b>E lì incontrò Harry Pickering?
</b>Sì, uno studente che abitava in albergo con una vecchia zia, accompagnata da un gigolò e da un cane pechinese. Mio padre intuì dallo sguardo infelice che stava finendo i soldi e gli offrì spontaneamente un prestito di 10.000 lire per saldare il conto e far ritorno in America. Passarono i mesi. Nel febbraio 1930 Pickering gli restituì quattro volte tanto: «Cipriani, grazie, ecco i soldi. Serviranno per aprire un locale in società. Lo chiameremo Harry’s bar». E così fu. Nel 1946 andai con mio padre a Montecarlo a trovare Pickering. Stava male. Morì di lì a poco.
<b>Lei quando cominciò a lavorare all’Harry’s bar?
</b>A 19 anni. Benché poi mi sia laureato in Giurisprudenza, papà mi disse: «Non sarai mai un buon avvocato. Da stasera ti metto alla cassa». La mattina avevo preso 19 a un esame. Per celebrare le mostre di due grandi pittori, mio padre inventò il Bellini, un long drink con succo di pesca bianca e Prosecco, e il Carpaccio, un filetto di manzo affettato sottile e condito con una salsa che chiamavamo «universale», del quale era ghiotta la contessa Amalia Nani Mocenigo. Io invece non ho inventato assolutamente nulla.
<b>Non si butti giù.
</b>È la pura verità. Ho solo imparato il senso del dovere. Sto qui da 70 anni, mezzogiorno e sera. Ma per 35 ho lavorato solo sei giorni la settimana. «Te pensi massa a pescàr», borbottava il papà, perché avevo l’hobby della pesca alla mosca. Oddio, anche della vela e del remo: partecipai alle prime 10 Vogalonga.
<b>Mentre per lui solo lavoro.
</b>L’hotel Cipriani chiudeva due mesi d’inverno. Il direttore chiese a mio padre: «Potrei stare a casa un giorno alla settimana?». La risposta fu: «Parché? No’ se divèrtelo qua?».
<b>Lei aveva anche l’hobby della velocità. Confessò di fare slalom ai 180 orari fra gli autovelox sul ponte della Libertà.
</b>Ce l’ho ancora. Con la Topolino che mi regalò il papà, un mostro a due carburatori, di notte provavo le curve sulle Torricelle prima di una gara automobilistica. Adesso ho una Mercedes C 63 Amg S che fa i 300 e sùpia. Da 0 a 200 in 11 secondi. Però da sei anni ho smesso di bere, sono completamente astemio.
<b>È una notizia!
</b>Caro mio, non conta se sei sobrio solo prima di metterti al volante. Gli alcolici influiscono in permanenza sui riflessi. Devo trattarmi con riguardo. Sono istruttore di karate, ogni giorno mi sottopongo a un’ora di ginnastica violenta. Mi considero un sopravvissuto.
<b>In che senso?
</b>Dai 2 ai 15 anni ho avuto tutti i malanni conosciuti dalla scienza. Un medico stava per uccidermi con una dieta ipercalorica che avrebbe dovuto curarmi una gastroenterite. Mia madre ne chiamò un altro che mi salvò prescrivendomi solo acqua Sangemini per 48 ore. Qualche anno dopo anche lui però tentò di ammazzarmi somministrandomi con le sue mani il purgante durante un attacco di appendicite.
<b>Quando morì suo padre?
</b>Nel 1980. Fu colto da una brutta influenza, che lo indebolì molto. Rimase assopito per mesi in un dormiveglia. Un giorno spalancò gli occhi e, vedendoci attorno al letto, chiese stupito: «Siamo tutti morti?». Poi mi fece cenno di avvicinarmi e sussurrò: «No l’è che voia morìr, ma móro e no gh’è gnente da far. Mi dispiace, perché pensavo di andarmene a 84 anni». Invece non ne aveva ancora compiuti 80.
<b>Le ha lasciato le royalty sul Bellini e sul Carpaccio.
</b>Ma quali royalty! Dopo la cessione dell’hotel Cipriani, il mio marchio è sempre stato conteso. Quando aprii il ristorante Cipriani London, mi fecero causa. La persi. Mi costò 19 milioni di sterline.
<b>Da lei non esistono chef, solo cuochi. Perché?
</b>Gli chef sono narcisi. Invece i cuochi devono solo saper fare bene la pearà di mia nonna, la trippa, le seppie con la polenta. L’innovazione consiste nel cucinare bene la tradizione. La cipolla del fegato alla veneziana da noi viene soffritta per 40 minuti, però dopo tre ore l’apparato digerente non ti ricorda di aver mangiato quel piatto.
<b>Di Antonino Cannavacciuolo ha detto che «ha scritto più libri di Proust». Non scherza neppure lei: ne ha pubblicati 11.
</b>Certo, ma uno solo di cucina. E due erano romanzi. Inoltre non ho mai fatto il cuoco.
<b>Ma sa cucinare?
</b>Tutto. Però non così bene come i 350 cuochi che ho avuto al mio servizio. Il più bravo scriveva «carottte», con tre «t». Il giorno che se ne andò mi disse: «Me racomando, siór Arrigo, el asùma uno che l’àbia studià».
<b>I clienti per lei sono tutti uguali?
</b>Sì, a patto che non si comportino da protagonisti. Eugenio Montale si metteva in un tavolino nell’antibagno, sotto il telefono a gettoni, ed era un premio Nobel. Ernest Hemingway aveva un posticino tutto suo in un angolo.
<b>Completò <i>Di là dal fiume e tra gli alberi</i> nella Locanda di Torcello.
</b>La tenemmo aperta per lui anche d’inverno. Alle 10 di sera si ritirava in camera per scrivere. Dovevamo fargli trovare sei bottiglie di Valpolicella. Al mattino erano vuote. Una volta che dovette sbronzarsi in sua compagnia, mio padre si rialzò dal letto solo dopo tre giorni.
<b>Era un grande bevitore anche Orson Welles.
</b>Sentivamo il suo vocione già da metà di calle Vallaresso. Entrava e si faceva fuori due piatti di sandwich ai gamberetti con due bottiglie di Dom Pérignon ghiacciato. Un giorno lo accompagnai alla stazione di Santa Lucia. Mentre il treno si stava muovendo, il regista mi porse dal finestrino un pacco di traveller’s cheque in bianco. «Dica a suo padre d’incassarli, firmandoli con il mio nome», e scoppiò in una risata che ancora mi rimbomba nelle orecchie.
<b>I vip lasciavano spesso i conti in sospeso?
</b>Eh, i vip... La contessa Morosini era di una bellezza accecante. Portava via dalla nostra cucina ogni sorta di bendidio. Hemingway chiese a mio padre di farle recapitare mezzo chilo di beluga. L’indomani la nobildonna si presentò da papà: «Cipriani, avrei questo mezzo chilo di caviale, ma mica posso mangiarlo tutto. Che prezzo mi farebbe se glielo vendessi?».
<b>Ben poco nobile.
</b>La più indimenticabile, per signorilità, fu la regina Elisabetta II d’Inghilterra. La Locanda Cipriani di Torcello resta l’unico ristorante in cui si sia recata in privato. Il marito, il principe Filippo, era stato cliente dell’Harry’s bar da ufficiale della Marina britannica. Due mesi prima della visita le mandammo a Buckingham Palace tre menu, con piatti semplicissimi: pasta e fasoi, risotto con le verdure, ravioli di pesce fritto. Li scelse tutti. Al termine del pranzo, regalò a mio padre un paio di gemelli d’oro con lo stemma reale.
<b>Un piatto che non mancherà mai all’Harry’s bar?
</b>Il più semplice: tagliolini all’olio e prezzemolo.
<b>E uno che mai ci entrerà?
</b>L’invenzione, la promiscuità fra i gusti. Ogni anno offriamo un pranzo gratis a una scuola materna. Sono 20 bambini e noto che tutti hanno nel Dna i sapori della cucina veneta.
<b>Si fida dei critici gastronomici?
</b>Conobbi Gael Green, recensiva locali sul <i>New York Magazine</i> e teneva anche una rubrica sul sesso. Fece un confronto tra il ristorante gestito da mio figlio Giuseppe e un altro della Grande Mela, stroncando il nostro. Scrissi una lettera alla direzione della rivista: «Temo che la signora Green prima di pranzare non si sia tolta il preservativo dalla lingua». Fu pubblicata.
<b>Ha avuto per consuocero Raul Gardini, padre di Eleonora, che nel 1987 sposò Giuseppe. Perché si suicidò, secondo lei?
</b>Perché era un grande imprenditore, non uno dei tanti finanzieri rapaci di oggi, e finì per inimicarsi i politici.
<b>Lei è di sinistra, confessi.
</b>Volevo l’uguaglianza dei lavoratori, ma ho capito che la sinistra è solo un’ideologia, come le altre. E io le detesto tutte.
<b>Tesse le lodi di Luca Zaia.
</b>Un governatore intelligente. Capisce i veneti. Lo valuto da 10 e lode, ma solo perché non posso dargli 12.
<b>Come mai nel suo curriculum, alla voce «religione», ha scritto: «Non credente»?
</b>Perché sono un razionalista, anzi un epicureo, che crede solo a ciò che vede.
<b>Un tempo si definiva «ateo oltre ogni ragionevole dubbio».
</b>Credo moltissimo nella spiritualità, ma non in Dio. Se metti in un oggetto tanta intelligenza, gli dai un’anima. I musei sono popolati da anime.
<b>Al <i>Corriere della Sera</i> ha dichiarato: «L’aldilà è un menu degustazione imposto da uno chef che non sa cucinare ma passa il tempo in tv».
</b>Lo ridirei.
<b>Quindi crede che l’aldilà esista.
</b>Gianni Crovato, all’epoca direttore del <i>Gazzettino</i>, mi chiese il mio primo articolo per un giornale: un ricordo di mio padre. E io lo immaginai seduto in paradiso, mentre sorseggiava un Bellini insieme a Hemingway e intanto con l’altra mano scostava una nuvola scomoda per far risplendere il sole su entrambi. Beh, riscriverei la stessa cosa.
<b>Appunto: in paradiso.
</b>Ho già dettato l’iscrizione per la mia lapide: «Sto da Dio».
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