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 2021  gennaio 19 Martedì calendario

Paolo Bricco ha scritto un libro su Cassa depositi e prestiti

Quando Cavour le diede una prima forma, l’Italia non c’era ancora. La Cassa depositi e anticipazioni di fondi per i lavori pubblici nacque nel Regno di Sardegna sul modello francese della Caisse de dépôts et Consignations, ma ebbe poi un ruolo fondamentale nell’unificazione. Perché l’identità nazionale di un Paese è tutta racchiusa nel rapporto fiduciario tra un singolo cittadino risparmiatore e lo Stato. Cavour – si legge nel libro di Paolo Bricco ( Cassa depositi e prestiti. Storia di un capitale dinamico e paziente. Da 170 anni , Il Mulino) – stabilì una regola essenziale. I depositi erano garantiti dallo Stato. Ai liberisti dell’epoca non piacque questo vantaggio competitivo concesso dal potere pubblico a un solo istituto. Come non piace ai liberisti di oggi la pervasività della Cdp che, con un attivo, nel 2019, di 449 miliardi, è azionista di 11 società quotate ed è chiamata a intervenire su tutto. È il braccio operativo dello Stato in economia. Necessario (con limiti) specie in tempi di pandemia. Emergenza sanitaria ed economica non diversa da tante altre del passato (terremoti, guerre) affrontate grazie alla presenza di questo polmone pubblico. La Cassa era ed è un sorprendente scrigno delle virtù private popolari, non raramente insidiato da ricorrenti vizi pubblici e interessi di parte. Leggere la sua storia ne chiarisce meglio il profilo e la sua indispensabile funzione.
L’Italia unita si fece con le strade, le ferrovie, le scuole e tutte le opere pubbliche delle amministrazioni locali finanziate dalla Cassa con i soldi messi da parte dalle famiglie, anche le più povere. Se nel regno sabaudo l’esempio era stato francese, con Quintino Sella – che nel 1870 istituisce la Cassa di risparmio postale – il riferimento fu inglese. Lo scopo, sempre con la garanzia pubblica, era di far affluire risparmio privato verso gli investimenti pubblici. Obiettivo di grande attualità se si pensa che la propensione al risparmio degli italiani è triplicata in un anno di pandemia. Oggi, davanti a noi, c’è lo stesso dilemma di Sella. Come impiegare utilmente il patrimonio attuale (e i fondi europei) nella creazione di reddito futuro?
Nell’età giolittiana, la Cassa crebbe fino ad avere attività pari al 20 per cento del prodotto interno lordo. Il nascente triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) fu il frutto anche dei suoi investimenti. Nei momenti più difficili, nella Prima guerra mondiale per esempio, venne chiamata a trovare la liquidità dell’emergenza e a sottoscrivere titoli pubblici. Durante il fascismo partecipò a quella che fu, nel 1926, l’unica operazione di ristrutturazione del debito mai attuata e nella difesa di Quota 90 (con la sterlina). Dopo la Grande crisi, la Cassa entrò nel capitale dell’Imi (Istituto mobiliare italiano) ma soprattutto dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) creato nel 1933 da Alberto Beneduce e guidato da Donato Menichella. L’Iri intervenne nell’economia privata salvando le banche travolte dalla crisi industriale. Partecipò al capitale di gruppi in difficoltà come Edison, Bastogi e Breda poi in parte (Italgas) privatizzati.
La Cdp di oggi (presidente Giovanni Gorno Tempini e amministratore delegato Fabrizio Palermo) viene spesso paragonata all’Iri. Nel bene, perché l’Iri e la Cassa furono protagoniste del miracolo economico. Crearono lavoro e benessere. La Cassa, per fare solo un esempio, finanziò il Crediop (Istituto per il credito nelle grandi opere) che contribuì alla costruzione (in otto anni!) dell’Autostrada del Sole, inaugurata nel 1964. Nel male perché l’impresa pubblica accumulò debiti ingenti – fino al 1994 di 127 mila miliardi di lire – che pesano ancora oggi su tutti. Nel caso dell’Efim, l’Ente per il finanziamento delle industrie manifatturiere, liquidato nel 1992, la Cassa venne autorizzata, due anni dopo, per sostenerne l’onere, a «emettere obbligazioni e contrarre prestiti per un controvalore di non meno di 9 mila miliardi». Il finanziamento alle amministrazioni locali, di cui Cdp ebbe il monopolio fino al 1989, indusse molti Comuni a preferire al prelievo fiscale per i propri cittadini, il debito accollato anche a tutti gli altri italiani. E così accadde, altro esempio, che nel 1974 la Cassa approvasse un mutuo da 16 miliardi a favore del Comune di Napoli per «dismissione di passività». 
L’autonomia patrimoniale della Cassa venne riconosciuta solo nel 1983. Il profilo giuridico rimase incerto fino alla trasformazione, nel 2003, con le regole europee, in società per azioni. Non una banca, ma assimilata alla Banca d’Italia. Una market unit al di fuori del perimetro pubblico, dunque il suo debito (il risparmio postale) non entra nel calcolo di quello totale. Ma non impedisce alla Cdp di essere l’acquirente «naturale» delle partecipazioni del Tesoro in modo da alleviare il peso del suo bilancio pubblico. Le fondazioni di origine bancaria – le stesse casse di risparmio che ne contrastarono, temendone la concorrenza, l’attività – hanno rilevato una quota del 30 per cento. E qui anche la storia un po’ si chiude – come nota nel libro l’ex presidente della Fondazione Cariplo e dell’Acri, Giuseppe Guzzetti che si laureò nel 1953, in Cattolica, con una tesi sull’attività della Cassa in Somalia – e prende forma l’attuale soggetto forte di un’economia indebolita. 
La Cdp, che è presente nelle reti infrastrutturali anche attraverso i suoi fondi, è impegnata su tutti i fronti più caldi. Uno su tutti: il nuovo assetto di Autostrade, dopo la tragedia del ponte Morandi, che con le sue partecipate (Fincantieri e WeBuild) ha ricostruito a tempo di record. Il rapporto con la politica, che la vorrebbe impegnata ovunque (dall’ex Ilva all’Alitalia), corre sul filo delle sue competenze interne e della capacità del management di dire qualche no. E di ricordare sempre ai propri interlocutori che il suo capitale è formato dal risparmio postale, il perno della fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato. Basterebbe solo, per estrema garanzia, rileggersi un articolo di Luigi Einaudi pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 novembre 1921, in cui respingeva l’idea che la Cassa fosse un «fondo cui si possa attingere a piacimento». Il Comune di Milano, allora, era in grave dissesto. Il sindaco, il socialista Angelo Filippetti, chiese l’intervento della Cassa, appoggiando anche lo sciopero dei dipendenti. Al governo c’era Luigi Facta, l’ultimo prima di Mussolini. «Che cosa accadrebbe – scrisse il futuro presidente della Repubblica – se i depositanti delle casse postali di risparmio immaginassero che i loro depositi sono mutuati a Comuni di color rosso, giallo o bianco, dietro pressioni politiche e minacce di scioperi?». La Cassa all’epoca disse di no. Se ne dicano altri anche oggi. Rafforzeranno il capitale e lo scopo di tanti altri, e necessari, sì.