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 2021  gennaio 19 Martedì calendario

Libia ostaggio degli orrori delle tribù

Guardo scorrere i filmati delle fosse comuni che da settimane vengono alla luce a Tarhuna in Libia. Viene in mente lo slogan scritto su una maglietta che vidi in Ruanda al tempo del genocidio: «Seppellire i morti, non la verità».
Gli uomini che scavano alla ricerca dei corpi sono rivestiti delle tute bianche che la pandemia ci ha reso abituali, quotidiane, il volto è coperto da maschere. Scavano buche superficiali. Gli assassini avevano fretta, i nemici stavano entrando in città, hanno ucciso e poi gettato su uomini, donne, anche bambini, poche palate di sabbia. Chi ha scoperto le prime fosse racconta che uscivano dalla sabbia lembi di vestiti, frammenti di arti. Ne hanno portate alla luce già una trentina, con 120 corpi. Ma le persone che risultano scomparse a Tarhuna sono 350. I parenti mostrano le foto, chiedono di vedere i vestiti, gli oggetti ritrovati nelle fosse, cercano una traccia, una prova, una smentita. Di molti non si è ancora scoperta l’identità. Gli innominati: coloro che vengono uccisi e sepolti anonimamente.
L’impressione più terribile l’offrono le sagome disegnate sulla sabbia dai vestiti, una uniforme, una lunga veste femminile, la tuta di un bimbo; sembrano ipotesi irrealizzate di esseri umani, la traccia lasciati da fantasmi che non potremo mai abbracciare. Palme derelitte presidiano il pietoso lavoro degli sterratori. Incombe il cielo di un azzurro così chiaro da sembrare irreale, metafisico. La forza dell’elemento distruttivo non si coniuga con la speranza o un progetto di un mondo nuovo: solo morte e guerra.
C’è chi sostiene che l’impatto estetico con il macabro come le tracce di un massacro emozioni ma non aiuti a capire il male. Forse ha ragione: a furia di guardare atrocità, le sue prove e testimonianze alla fine ci appaiono irreali, finiamo per abituarci e non ne ricaviamo alcun arricchimento morale.
I massacri sono tutti identici tra loro, Ruanda, Darfur, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia: i morti sono innocenti, gli assassini sono dei mostri, e la politica internazionale è complice o inesistente. Se non fosse per il mutare degli sfondi dietro le fosse comuni, la savana il deserto una città in rovina una foresta lussureggiante, sembrerebbe sempre la stessa storia: un gruppo che ha le armi massacra un gruppo che non le ha in un ennesimo ciclo di odio atavico. Più la Storia cambia e più le cose, queste cose, restano eguali. Il massacro è frutto di una violenza talora endemica talora episodica ma sempre in posti dove «ci si uccide reciprocamente». La universalità del male ci solleva quasi dalla necessità di riflettere su quell’episodio particolare. Queste fosse comuni emergono dal nulla e altrettanto velocemente tornano nel nulla. Il sangue si coagula, i cadaveri senza nome e i loro assassini, anche loro senza nome, divengono sfondo. E l’orrore, così, risulta qualcosa di assurdo.
Capire l’orrore
A Tarhuna non deve finire così, dobbiamo volerne sapere di più. Innanzitutto perché esiste un gran numero di prove per dare nome agli assassini: la "banda dei sette fratelli", la famiglia al-Kani, che per cinque anni ha tenuto in pugno con il crimine una città di tredicimila abitanti a settanta chilometri dalla capitale come se fosse una proprietà personale: tutto era loro abitanti case negozi attività commerciali traffici leciti ed illeciti. Senza scomodarsi neppure a camuffarsi con cariche fittizie: governatore, sceicco, cadì. No: Tarhuna è della famiglia al-Kali e del suo esercito di sgherri. Bastava la violenza. Nessun pudore, niente pudicizia, solo latrocini a non finire. Non c’era altro da dire.
C’è una foto dei loro anni di potere, una foto arrogante, di trionfo sguaiato: una sfilata per le vie della città dei sette fratelli, ammassati su un pick up, sul tetto della vettura sdraiate, nella loro vigile ferocia, due leonesse, gli animali di famiglia.
Il cancro libico
Questi criminali sono cresciuti come un cancro all’interno della storia libica degli ultimi dieci anni. A Tarhuna, quando nel 2011 arrivarono le notizie dei moti a Bengasi e le immagini del Colonnello che balbettava minacce e castighi, i Kali capirono subito che il despota di Tripoli aveva smarrito l’unica cosa che anche loro, da criminali, rispettavano, la ferocia. Si aprivano nuove possibilità nel caos, ci affondarono le mani nella rivoluzione, nella "democrazia". Deporre il potente per ereditarne il potere.
Il linguaggio della ferocia
Hanno eliminato una dopo l’altro le bande rivali, avviato la protezione dei traffici più redditizi come migranti e droga, imposto tasse su commerci e negozi, largheggiato in sequestri, torture, esecuzioni. Dal loro feudo si sono lanciati nella politica, ovvero combattuto guerre tribali con le altre milizie criminali per allargare il territorio, attaccato Tripoli dove hanno occupato per un po’ anche l’aeroporto. Battaglie a bassa intensità per gli strateghi da tavolino, ma i morti erano centinaia, i fuggiaschi migliaia. Comandava questi 5 anni di prepotenza l’implacabile Mohammed, il fratello maggiore, che raccontano professare senza turbamenti il doppio credo. Due fratelli sono morti, il più giovane Ali, ucciso in una faida con un gruppo rivale, e Muhsen, ucciso in un bombardamento.
Poi nel 2019 hanno fatto una scelta sbagliata. I loro nemici, la banda di Misurata, altri predoni con medaglie rivoluzionarie, erano infeudati al governo di Tripoli, il clan dei Kali ha scelto il generale Haftar che, con l’aiuto di russi ed egiziani, voleva marciare sulla capitale. Tarhuna offriva una base perfetta per l’ultimo assalto, la strada per tripoli srotolata come un tappeto. La lercia milizia criminale "al Kaniya" è diventata così la gloriosa nona brigata dell’esercito di Haftar con gradi e bandiere. Ma Hatfar è stato sconfitto, a giugno anche la brigata dei sette fratelli ha dovuto fuggire verso est braccata dalle altre milizie banditesche del "governo’’ di Tripoli. Prima hanno scatenato un’ultima bava di frenesia omicida.
Ecco, questa è la Libia: mentre noi barbugliamo di governi legittimi, coalizioni, partiti, cooperazione, diritto, qui tutto è elementare, arcaico e onnipotenti sono la forza bruta, il delitto, l’economia criminale. Dieci, cento bande come i Kali di Tarhuna controllano quartieri, città, regioni, si eliminano e si fondono secondo indecifrabili (per noi) geroglifici tribali e criminali.
Tarhuna non è una piccola città senza importanza di una periferica guerra civile. È l’abbecedario delle guerre del nostro tempo in cui il crimine si militarizza e i ribelli usano mezzi criminali, dove è il bottino il vero scopo. E dove il massimo della ferocia è sempre necessaria per controllare gli inermi e spaventare i nemici. Il dilatarsi della violenza diventa Storia. Pensate che in fondo tutto si è concluso bene, i fratelli assassini sono fuggiti o morti, Tarhuna e sotto il controllo del nostro alleato, il democratico al Serraj? Vi sbagliate. La città è passata al dominio della famiglia criminale rivale dei Kali, il clan Na’aja.