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 2021  gennaio 19 Martedì calendario

22QQAFM10 Intervista allo scrittore Douglas Stuart

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Ogni famiglia infelice è infelice a suo modo, come insegna Tolstoj nel proverbiale incipit di Anna Karenina , ma quella del ragazzo difficile Shuggie Bain non si risparmia niente dal punto di vista delle sventure: un padre donnaiolo e inconcludente, una madre depressa e alcolizzata, tre fratelli lasciati crescere allo sbando, il più piccolo dei quali troppo diverso dagli altri per ambientarsi in una città di minatori brutalizzati dalla miseria. Siamo a Glasgow, Scozia, nel 1981: una città ferita dalle privatizzazioni della Thatcher, perennemente bagnata di pioggia, tenuta viva soltanto dai pub e dalla passione per il calcio. Eppure, da questo bozzolo di umane amarezze, Douglas Stuart costruisce un romanzo carico di ironia, gioia e speranza: Storia di Shuggie Bain , pubblicato in Italia da Mondadori, è diventato un caso editoriale nel Regno Unito, primo libro di un esordiente a vincere il Booker Prize, il più prestigioso premio letterario britannico, titolo dell’anno per la catena di librerie Waterstones, in corso di traduzione in mezzo mondo. C’è una pepita anche nel pozzo più nero, a saperla cercare, come l’autore racconta al telefono da New York, dove ora abita, collabora al New Yorker e sta scrivendo il secondo romanzo.
Come ha reagito a vincere il Booker con il suo esordio?
«Sono rimasto scioccato, ovviamente non me l’aspettavo ed è stata un’esperienza ancora più surreale perché, a causa della pandemia, ho ricevuto la notizia a New York, lontano da Londra, senza passare attraverso le abituali fasi eliminatorie e semifinali del premio. Ci ho messo due settimane a credere che fosse proprio vero».
E che effetto fa arrivare al successo dopo i quarant’anni?
«Probabilmente sei più maturo per affrontarlo. Ma non avrei potuto vincere questo premio quando ero giovane, anzi da giovane non avrei nemmeno potuto scrivere questo libro. Ho impiegato dodici anni a finirlo, sono maturato insieme alla mia storia e ai miei personaggi.
Soltanto a quarant’anni passati, per esempio, ho pienamente compreso il punto di vista di Agnes, la madre, che ha più o meno quella età, esaminandola con una compassione che a vent’anni non avrei provato».
Quanto c’è di autobiografico nella sua storia?
«È un romanzo, non un’autobiografia. Però io sono nato e cresciuto a Glasgow, in una famiglia della classe operaia come quella del libro, in una condizione di progressivo impoverimento come capita ai suoi personaggi. Mia madre era alcolizzata come la protagonista. Insomma, è indubbio che ci sia molto di me in queste pagine, anche se si tratta di persone inventate».
Perché ha messo sua madre in cima ai ringraziamenti finali?
«Perché è morta di alcolismo quando io avevo soltanto sedici anni e il libro è stato il mio modo di cercare di colmare quella perdita, di riconnettermi con lei, con il me stesso di allora, con la Glasgow in cui ero ragazzo. Con un mondo che aveva al centro mia madre».
È anche un romanzo sulla difficoltà di essere omosessuale in un ambiente ostile. Quanto è cambiato tutto questo nella Gran Bretagna e nell’Occidente odierni?
«Più che un ambiente ostile, direi un ambiente con una visione ristretta di cosa debbano essere un uomo o una donna. Certo, da allora i diritti degli omosessuali hanno fatto molti passi avanti. Ma restano tanti problemi. Quando sei povero, conosci solo le strade vicino a dove vivi, non puoi spostarti con facilità, unirti a persone di vedute più larghe o più simili a te.
Discriminazione e bullismo esistono ancora, perfino a New York dove abito ora mi occupo con un’associazione di beneficenza di giovani gay che soffrono per la maniera in cui sono trattati».
Sullo sfondo c’è Glasgow, città teatro di tanti romanzi: cos’è per lei?
«Un luogo di grandi emozioni e grandi contrasti, una città piena di tenerezza ma pure di violenza, contemporaneamente allegra e triste. Un posto dominato dalla classe operaia, a cui rimango fortemente legato. I miei parenti sono ancora lì, nello stesso quartiere e nella stessa strada in cui sono cresciuto io».
Però a un certo punto ha deciso di andarsene a New York: oggi si sente più scozzese o più americano?
«Un misto delle due cose. Forse mi sento più scozzese, ma l’America mi ha dato grandi opportunità che in Scozia non avrei mai avuto».
Chi sono stati i suoi maestri quando ha cominciato a scrivere?
«Sono cresciuto in una casa senza libri e quelli che mi facevano leggere a scuola, i classici inglesi, non mi entusiasmavano. Ho cominciato ad appassionarmi scoprendo, dopo i vent’anni, la letteratura scozzese: James Kelman, Agnes Owens, Janice Galloway. E poi mi ha molto influenzato un grande scrittore americano, James Baldwin».
Lei come è diventato scrittore?
«Da quando ho scoperto che amavo leggere, ho sempre continuato a scrivere, anche se non necessariamente per pubblicare.
Prima ho lavorato a lungo nell’industria del fashion, è questa che mi ha portato a New York. Ma nel tempo libero scrivevo sempre. E adesso posso finalmente farlo a tempo pieno».
Ha avuto un modello per scrivere "Storia di Shuggie Bain"?
«Sì. Thomas Hardy e il suo Tess dei d’Urberville . L’epopea di una famiglia, tra disperazione e speranza. Una storia senza tempo, che vale anche per i giorni nostri».
Perché ha scelto nome e cognome del protagonista per il titolo?
«In realtà, come ha notato qualche critico, avrei dovuto metterci il nome di Agnes, la madre, perché in fondo è lei la vera protagonista. Ma Shuggie contiene in sé il barlume di speranza che, come una pepita in una miniera, è il messaggio del mio libro. La possibilità che l’amore trionfi anche in mezzo alle tenebre».
Un messaggio di speranza: cosa di cui abbiamo tutti bisogno all’inizio di un altro anno difficile per il mondo a causa della pandemia.
«Forse anche per questo il mio libro ha incontrato consensi. Giunge al momento giusto, perché la crisi del Covid ci ha ricordato quali siano le cose veramente importanti: la solidarietà, i rapporti personali, la speranza che domani sia un giorno migliore».