il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2021
Biografia di Ludwig Wittgenstein
Tra tutte le famiglie “infelici a modo loro” quella dei Wittgenstein è esemplare: “Uno tiranneggia amorevolmente l’altro”, tre figli su otto si suicidano e gli altri, i sopravvissuti, sono “pellacce dure e coriacee, che per questo faticano ad avvicinarsi con tenerezza”.
Da tale stirpe dannata discende il più grande filosofo del Novecento: Ludwig Wittgenstein (1889-1951), che ha “avuto una vita meravigliosa”, dice lui, con humour austriaco, lontano dallo stereotipo dell’intellettuale grigio e ammuffito. Tornano ora, dopo 23 anni dalla prima edizione (Archinto), le sue Lettere alla famiglia (1908-1951), dal valore più aneddotico che teoretico, ma preziose per inquadrare il genio eclettico e fumantino del primo pensatore del secolo breve, che è stato soprattutto altro: eremita, soldato, giardiniere, maestro, cacciatore di aquiloni… Vostro fratello Ludwig è un’antologia riveduta, corretta e ampliata, in libreria da giovedì con Mimesis: raccoglie perlopiù missive alle e dalle sorelle Helene, Hermine e Margarete, oltre a qualche traccia dell’amato fratello Paul e della nipote.
Ottavo e ultimo figlio dell’industriale Karl Wittgenstein, Ludwig perde tre fratelli su sette per suicidio – Hans, Rudolf e Kurt –, ma anche con gli altri non intrattiene sempre rapporti idilliaci (si legga la lettera qui accanto, ndr), nonostante i contatti di penna e l’affetto dei maggiori per il fratellino “Lukas, Luki, Lukerl”, nomade e irrequieto sin da ragazzo. La corrispondenza inizia nel 1908, quanto Ludwig è un promettente 19enne: dopo aver studiato Ingegneria meccanica a Berlino, si sposta a Manchester per approfondire l’aeronautica, ma si trova male, con continue liti con gli assistenti del prof perché non sanno disegnare. In estate, allora, punta su Glossop, in un centro di ricerca, dove si occupa degli aquiloni per meteorologi. Anche questa infatuazione dura poco: incoraggiato da Frege e Russell, inizia allora a dedicarsi alla filosofia, dal 1911 a Cambridge. Nel frattempo, gli muore il padre, lasciando una lauta eredità, che lui dona in beneficenza “agli artisti austriaci privi di mezzi”, come, tra gli altri, i poeti Rilke e Trakl.
Pausa. Troppa filosofia angustia; perciò Ludwig si isola sui fiordi norvegesi in un eremo da lui costruito. Pausa. È tempo di tornare all’azione: la Prima guerra mondiale è scoppiata, perché non arruolarsi? Così parte per il fronte nel 1914, e viene persino medagliato; ciononostante trova il tempo di annoiarsi e studiare: sono gli anni in cui abbozza il Tractatus, unica sua opera rilevante pubblicata in vita. Lo termina nel 1918, durante una licenza militare, ma il saggio esce solo nel 1921 come Logisch-philosophische Abhandlung e nel ’22 come Tractatus logico-philosophicus. Nel frattempo sperimenta altre peripezie, come la prigione e il confino a Cassino: “La mia vita qui è assolutamente monotona. Non lavoro e penso sempre se diventerò mai una persona perbene”.
Tornato a Vienna dopo la guerra, Wittgenstein si iscrive a un corso per diventare maestro di scuola elementare: inizia a insegnare nel 1920, lavorando al contempo come aiuto giardiniere in un monastero. Pure la carriera di docente, però, è fulminante: nel ’26 Ludwig è accusato di maltrattamenti ai danni di uno scolaro e lascia l’incarico. Torna in un monastero, questa volta come giardiniere capo, e progetta la costruzione della casa della sorella Margarete. L’architettura è una delle sue passioni; durante una vacanza norvegese, si preoccupa persino delle dimensioni e del pizzo della tovaglia per l’altare di un curato suo amico, mentre viene assunto in una ditta di succhi di frutta perché non riesce a stare inattivo.
Nel ’29 riprende gli studi filosofici a Cambridge, ottenendo una cattedra e una borsa di studio, ma dal ’38 ricominciano le tribolazioni: la sua famiglia ha origini ebraiche, “sangue misto di 1° grado”, e tutti si vedono costretti a fuggire. Lui diventa cittadino britannico, viaggiando intanto in Irlanda e Stati Uniti e facendosi mandare ovunque, dalle sorelle, pacchi di biancheria intima, libri e dischi. Pur sullo sfondo, la filosofia resta la sua croce e delizia, fino alla morte nel ’51 per un cancro: “Cara sorella, scrivi che io sono un grande filosofo. Certo, lo sono, e tuttavia da te non voglio sentirlo dire. Chiamami ricercatore della verità e sarò contento… Chiaro, lo devo ammettere, la mia grandezza a volte sorprende persino me stesso”.
Cara Mining! Prevedo che si tratterà di una lunga lettera. Ti voglio infatti scrivere di un argomento sul quale mi ero proposto di scriverti già da tanto tempo e ti prego di prendere davvero in considerazione quello che ti dico, e di non gettarlo al vento. Voglio chiedere a te e a Paul qualcosa che riguarda la nostra festa di Natale. Tu sai certo che questa festa, da quando mamma è morta, non è più stata del tutto soddisfacente, e credo anche che questo sia ovvio; prima di dare spiegazioni voglio però esprimere la mia preghiera, che è quella di invitare alla festa alcuni amici a cui siamo tutti affezionati. Ora, la ragione è che neppure noi cinque fratelli (ma ancor meno noi con i nostri nipoti) siamo fatti in modo da formare insieme una bella compagnia senza il condimento degli amici: tu puoi magari conversare con me e con la Gretl, ma chiacchierare insieme tutti e tre diventa già più difficile. Ancora meno facile è fra Paul e Gretl. La Helene va d’accordo con tutti noi, ma non ci verrebbe in mente di riunirci a tre: io, te e Helene.
Siamo, insomma, delle pellacce dure e coriacee, che per questo faticano ad avvicinarsi l’un l’altro con tenerezza. – Invece le cose funzionano a meraviglia se con noi ci sono degli amici che hanno toni più leggeri e che portano nella compagnia quello che a noi manca. Che ci sia possibile vedere i fratelli di domenica nella Alleegasse lo dobbiamo soltanto ai nostri amici. Non intendo dire naturalmente che i fratelli si radunino nella Alleegasse solo per incontrarvi gli amici e non i loro fratelli e parenti, ma essendo in tanti è più confortevole anche per noi se siamo diluiti dagli amici. Se vi riflettete, arriverete alla medesima conclusione, ammesso che non vi sia già nota. Ora non credo affatto che si possa dire: ma è davvero triste che non siamo in grado di stare bene soltanto fra di noi. La cosa non è affatto triste; le nostre nature sono semplicemente così, e le nostre migliori qualità dipendono in parte da questo fatto. – Fra di noi riusciamo a chiacchierare, ossia a socializzare a due a due – ma non arriviamo a fare giochi e cose simili. E quando si sta insieme, bisogna fare qualcosa. È un non senso voler stare bene insieme senza che vi sia qualcosa di comune a tutti – (e la piacevolezza in sé non è un’attività). Né è sufficiente stare soltanto a rimirare l’albero e i regali… Ripeto: non si capisce perché proprio quella sera dovremmo riuscire a realizzare con successo quello che per tutto l’anno non possiamo o non vogliamo fare, ossia stare insieme noi cinque senza amici… Vi saluta cordialmente il vostro Ludwig.
novembre 1929