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 2021  gennaio 18 Lunedì calendario

1QQAN40 Nedo Fiano raccontato dal figlio Emanuele

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«Noi figli dei sopravvissuti alle camere a gas di Birkenau non siamo normali. E non lo saremo mai. Noi dai nostri padri non abbiamo ascoltato solo parole tenere, ma il silenzio impastato di lacrime e urla». Di cosa sia questa "non normalità", del lento e doloroso processo di metabolizzazione di un’eredità unica, offre una bellissima testimonianza Emanuele Fiano, architetto, parlamentare del Pd e figlio di Nedo, scomparso un mese fa a 95 anni. Il libro Il profumo di mio padre è il frutto di un’autoanalisi sofferta, espressione di un grande amore filiare — come scrive Liliana Segre nella prefazione — e nel contempo atto liberatorio che si compie nel trasmettere insieme memoria ed elaborazione delle ferite legate a quella memoria.
Ultimo di tre fratelli, nato nel 1963 in una Milano resa elettrica dal boom economico e dalla creatività della fabbrica, Emanuele bambino percepisce un’ombra nascosta in quel vitalissimo padre lanciato nella carriera industriale, affascinato dal nascente design e dalle mille opportunità di New York, sempre in ordine e profumato di Lifebuoy, l’aroma del sapone arancione che si spande nella casa con l’effetto di un balsamo. E proprio in quella fragranza era custodito un pezzo della storia mai raccontata. «Solo più tardi avrei scoperto che era il profumo del soldato nero americano che l’aveva liberato a Buchenwald».
Nella sua famiglia come nelle famiglie di molti sopravvissuti la Shoah è rimasta a lungo taciuta.
«Era un tabù, per usare un termine psicoanalitico che si addice a questo mio lavoro di scavo. A casa, Auschwitz era una parola sconosciuta, ma la memoria fluttuava nell’aria anche attraverso segni non verbali, e io percepivo tutta la sua terribilità. Avevamo pochissime fotografie della famiglia paterna, però le pareti erano tappezzate di libri in tutte le lingue che raccontavano lo sterminio.
Immagini spaventose che comunicavano tanto, ma nessuno mi spiegava».
Suo padre ingentiliva anche le ferite più evidenti.
«Il numeretto sul braccio, i buchi nelle gambe, l’alluce mozzato: per ogni cosa mi faceva racconti rassicuranti. "È il numero di telefono, lo annotano i papà smemorati", mi diceva indicando il tatuaggio. E io in classe chiedevo ai miei compagni: lo fa anche vostro padre?».
Sembra una delle trovate del personaggio di Benigni in "La vita è bella".
«Papà gli fece da consulente ma di più non so dire. So che la casacca che indossava Roberto era stata cucita su quella che conservava mio padre. E che naturalmente s’era guardato bene dal mostrarmi».
Però poi c’erano gli improvvisi scoppi di rabbia.
«Durante una gita cominciò a lamentarsi per le ferite procurate dai rovi mentre tentava di raccogliere le more. E io con la sciocca innocenza di un bambino: "Papà ma è peggio di Auschwitz?". Fui sorpreso dalla sua reazione: parole durissime, da un padre sempre molto dolce. Io non capivo cosa avessi detto di così grave».
Lei racconta anche del suo ordine maniacale.
«La tavola doveva essere apparecchiata in modo preciso, mai una posata fuori posto. Così il rifacimento del suo letto. Mi ha sempre colpito un’abitudine che ha conservato fin quando è stato cosciente: aveva le unghie sempre curate. Ne avrei capito la ragione quando mi raccontò che ad Auschwitz impazziva nel vedere i rimasugli di terra sotto le unghie: sapeva che quel terriccio era intriso della cenere dei suoi genitori, del fratello, degli zii. La mania dell’ordine era una medicina contro la bolgia del lager, proprio in senso dantesco».
Era un padre che non ammetteva nei figli le lacrime. Eppure lo vedevate piangere davanti a Hitler o Mussolini in tv.
«Non bisognava piangere mai. Ma la sua lezione così severa veniva contraddetta dalla sofferenza in cui lo vedevo precipitare in alcune occasioni».
Succedeva nella cerimonia della Pasqua ebraica, a casa del rabbino a Milano.
«A mio padre veniva chiesto di leggere un brano sulla schiavitù degli ebrei in Egitto. Veniva scelto perché incarnava la schiavitù dei lager, quindi con un intento pedagogico positivo. Lui si scioglieva in una commozione irrefrenabile, sentendosi vittima nelle sue ferite più profonde. E io soffrivo insieme a lui, perché ne avvertivo il dolore e perché non è facile assistere alla trasfigurazione del proprio padre da supereroe in vittima piangente».
A lungo s’è portato dentro un sentimento di inadeguatezza.
«Fino alla fine della sua vita — e forse ancora adesso — ho sentito il dovere di risarcirlo di tutto quello che gli era stato tolto. Era come se tutti noi — la sua nuova famiglia amatissima, quella che si era costruito da zero dopo la guerra — dovessimo essere ciò che era scomparso, ma questo era impossibile. E ti resta il sentimento di inadeguatezza per un vuoto incolmabile».
È difficile confrontarsi non solo con un padre sopravvissuto ad Auschwitz, ma con un padre che ha trovato la forza di resistere anche al deserto dopo l’inferno: dopo la guerra era rimasto completamente solo .
«La sua è stata una vita in salita, affrontata con una forza vitale inarrivabile. La psicoanalisi mi ha aiutato a capire che non dovevo gareggiare con mio padre. E che non dovevo risarcirlo di niente: non è colpa mia quello che era successo.
Dovevo — questo sì — vivere in modo conseguente alla lezione che mi ha tramandato. E l’esperienza politica è stata in parte una medicina. Anche se lui al principio non apprezzava la mia scelta: forse perché la politica aveva tradito suo padre Olderigo, fascista devoto poi spedito da Mussolini nella camera a gas».
Il passaggio dalla memoria privata alla memoria pubblica non è stato indolore: lei conobbe i dettagli drammatici della sua storia nel corso di una conferenza .
«Avevo 14 anni. Naturalmente sapevo che mio padre era sopravvissuto al lager, ma fino ad allora non mi aveva ancora raccontato la sua tragedia famigliare. All’inizio della conferenza disse che da Auschwitz s’era portato dietro una valigia chiusa e che da quel momento avrebbe cominciato ad aprirla. Era legittimo da parte sua: sceglieva di diventare testimone, quindi di condividere la sua esperienza per il bene di tutti. Ma quella valigia chiusa era il nostro non detto, una cosa che apparteneva alla complessità e all’intensità del nostro amore. Provai confusione e forse un po’ di gelosia».
Poi avrebbe avvertito un sentimento speculare.
«Quando ho cominciato a far politica soffrivo perché la mia memoria privata non era riconosciuta come un elemento di storia nazionale. Più tardi mi sono liberato anche di questo».
Anche tenere tra le mani i documenti storici di suo padre non è stato facile.
«Hanno rappresentato l’irruzione della storia tragica in quello che nella mia vita di bambino era stato un racconto mitico, con i tratti rassicuranti della leggenda. C’era una dimensione fantasmatica che mi legava a mio padre — il suo dolore era il mio, perfino il suo profumo diventava il mio — ed era come se tutto questo si frantumasse davanti alle carte compilate i0n caratteri gotici o con le scritte dei liberatori americani».
Suo padre, così carico di memoria, ha vissuto gli ultimi anni in una sorta di assenza cognitiva.
Come ha vissuto la sua perdita di memoria?
«È stata una fase completamente nuova del nostro amore. Da una parte ho provato un sentimento positivo perché, non ricordando più, aveva smesso di soffrire. Dall’altra però mi è mancato il padre dei racconti e del colloquio. E forse da questo è scaturita l’urgenza di fissare il ricordo in un libro, insieme all’elaborazione delle ferite. Ho cominciato a scrivere quando mio padre è diventato inconsapevole».
Lei chiude la sua testimonianza con le parole di suo padre che le risuonano dentro.
«Non dimenticarmi, non lasciare che mi dimentichino, non dimenticare le rovine fumanti alle tue spalle, sappi che sei figlio della forza sovrumana di chi non si è dato per vinto e ha continuato a sperare. Il suo lascito non consiste solo nel coltivare la memoria, ma nel continuare nel lavoro di scavatori dell’animo umano. Ho imparato anche da quello che non è riuscito a dirmi, forse per delicatezza: l’abiezione raggiunta non solo dalle Ss, ma anche dagli esseri umani spinti al grado ultimo della loro condizione».
Il suo libro esce a meno d’un mese dalla scomparsa di suo padre.
«Oggi farò la presentazione con la barba lunga perché per tradizione nei primi trenta giorni del lutto non ci rasiamo. Mi colpisce molto questo fatto. Come s’accorgeva di un solo pelo fuori posto, mio padre si arrabbiava: c’è qualcosa che non va?
È come se lo vedessi davanti a me».