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 2021  gennaio 18 Lunedì calendario

In Afghanistan la vita è appesa a un nome in tasca

KABUL — Tareq Qassemi fa il libraio e ha perso un caro amico in un attentato che uccise 80 civili a Kabul in un torrido giorno d’estate. Quattro anni dopo, piange ancora il suo amico ma anche gli afgani senza nome morti con lui. «I corpi furono maciullati dall’esplosione: non rimaneva che una scarpa, una borsa o una penna», ricorda.
Qassemi, 28 anni, ora porta sempre con sé un foglietto di carta, un appunto su cui c’è scritto il suo nome, il gruppo sanguigno e i numeri di telefono di qualche parente; è una sorta di versione casalinga e civile della piastrina di un soldato. Sa bene quanto fragile possa essere la vita a Kabul e si rifiuta di diventare una vittima non identificata. «Potrei essere ucciso mentre vado al lavoro, in macchina o in qualsiasi altro posto, nessuno saprebbe che fine ho fatto».
Chi porta in tasca questo appunto spera che possa aiutare gli operatori del pronto soccorso a identificare il gruppo sanguigno di una persona ferita così da praticargli una trasfusione salvavita. O consentire di contattare i familiari perché possano stare accanto a un loro caro, ferito a morte, negli ultimi momenti. Oppure aiutare a identificare un corpo sfigurato. Per alcuni questo bigliettino è diventato essenziale: può convalidare un’esistenza, confermare un’identità, evitare di essere un morto senza nome.
«Se mi succede qualcosa, chi andrà a cercare il mio corpo? E se avessi bisogno di sangue?», dice Masouma Tajik, 22 anni, studentessa di informatica a Kabul. Tajik si è posta queste domande quando si è trovata bloccata in un ingorgo ed è stata presa dal terrore che un’autobomba potesse esplodere. Ora porta con sé un foglietto con i suoi dati personali. C’è scritto: «Se mi succede qualcosa».
Dal 2001 l’invasione americana ha scatenato una micidiale insurrezione talebana, e ogni giorno si rischia di morire per un’autobomba, una sparatoria, un’esplosione o un attacco missilistico. Dopo l’accordo firmato a febbraio 2020 con gli Stati Uniti, i talebani hanno ridotto gli attacchi nei centri urbani. Ma il Paese ha visto un aumento degli omicidi mirati, che colpiscono funzionari governativi, magistrati, giornalisti, studiosi di religione e attivisti della società civile. Il governo accusa i talebani, ma loro negano ogni responsabilità. Alcuni esperti temono che almeno alcuni degli attacchi siano stati commessi da fazioni politiche esterne ai talebani per regolare vecchi conti: inoltre, gli affiliati allo Stato Islamico hanno rivendicato la responsabilità di alcuni attacchi suicidi. La costante minaccia ha suscitato in molti afgani un senso di disperazione e di fatalismo. I gesti quotidiani, come fare il pendolare, andare a trovare un amico, fare la spesa, entrare in classe, possono finire in modo violento. «Ogni mattina, quando esco, non so se tornerò viva», dice Arifa Armaghan, 29 anni, che lavora per un’organizzazione non governativa. «In Afghanistan, si vive così».
Armaghan porta un appunto su di sé dal luglio 2017, quando un’amica morì in un attacco suicida dei talebani contro un minibus del governo che uccise altre 23 persone. Il suo corpo fu identificato solo grazie a un annello. «Quando perdi qualcuno che conosci, senti che la morte ti si avvicina», dice Armaghan. Ora dopo ogni strage lei e le amiche inviano dei messaggi ai cari: «Hai sempre paura che qualcuno non risponda».
In Occidente le persone portano abitualmente una serie di oggetti che possono identificarle, ma in Afghanistan cose come la patente di guida o il badge da dipendenti non sono così comuni e le carte di credito non vengono usate: agli afgani viene rilasciato un tazkira, un documento d’identità, ma pochi lo portano con sé perché, in caso di smarrimento è molto difficile da riavere.
Rafi Bakhtiar, 21 anni, fa il consulente. Dice che porta con sé il tazkira dall’attacco all’Università di Kabul del 2 novembre. Quel giorno, dice, i suoi vicini hanno cercato la figlia per tutto il giorno, finché l’università ha confermato che era morta. «Se vengo ucciso, voglio avere su di me informazioni, in modo che possano mettersi in contatto con la mia famiglia», dice lui. Come molti abitanti di Kabul, Bakhtiar nutre disprezzo per i ribelli ma accusa il governo di non proteggere i cittadini e ammette di aver accettato la realtà di poter morire in modo violento in qualsiasi giorno. «L’angelo della morte vola sull’Afghanistan», dice.
©Copyright New York Times News Service