Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2021
QQAN20 Richard Greene La pistola di Graham Greene
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Quando la vita è un inferno – ma questo è spesso soltanto un modo di dire – è meglio spararsi. Nel dubbio, e anche per rispetto a quel che va sotto il nome di destino o provvidenza, si può ricorrere alla roulette russa. È quanto si dice abbia fatto più di una volta Graham Greene da ragazzo con un piccolo ladygun a cinque colpi di proprietà del fratello Raymond.
Bisogna però subito aggiungere che, a parte quel che scrive lo stesso Greene nel secondo volume dell’autobiografia, prove certe non ce ne sono: «Facevo ruotare il tamburo, inserivo la canna nell’orecchio, e premevo il grilletto». Ma in quella pistola, e questo spiega perché il nostro eroe sia sempre sopravvissuto, le cartucce non c’erano o erano a salve, come una volta ha fatto sapere il fratello nel corso di un’intervista.
Ciononostante, Richard Greene – un professore canadese omonimo ma non discendente dello scrittore – ha preso per buona l’intera storia e se n’è avvalso, insieme all’editore, per un titolo a sensazione del suo ultimo libro: Russian Roulette: The Life and Times of Graham Greene (Little, Brown) da poco nelle librerie inglesi.
Cattolico convertito, Greene sapeva bene che a mentire si fa peccato. E per questo motivo, per permettersi di farlo liberamente e con il soccorso di una Musa complice, ha vissuto altre vite in romanzi racconti drammi saggi e confessioni in cui – riservato e guardingo com’era, per natura e cultura – ha sempre detto quel che pensava, ma in maniera mediata e indiretta, e mai fino in fondo.
Ormai ricco e famoso, e consapevole del fatto che la storia della sua vita prima o poi qualcuno l’avrebbe raccontata, fu lui stesso a un certo punto a mettersi in contatto con Norman Sherry, del quale aveva ammirato il libro in due volumi su Conrad (1966 e 1980); e, seppure con qualche riserva – perché Sherry era pur sempre un «noioso accademico» appartenente a quella genia di imbrattacarte che «guardano alla vita con il cervello e non con quello che hanno dentro i calzoni» – si accordò per una biografia ufficiale e autorizzata. Ma lì, su due piedi, sembra che lo abbia avvertito di una cosa: e, cioè, che «non gli avrebbe mai raccontato tutto di sé, anche se gli avrebbe comunque detto la verità».
The Life of Graham Greene di Norman Sherry (Jonathan Cape, Londra, 1989, 1994, 1999) fu salutata come «monumentale» e «definitiva», quando uscirono il primo e il secondo dei tre volumi che la compongono. Era frutto di un lavoro di ricerca tra carte e scartoffie durato trent’anni, nel corso dei quali Sherry aveva intervistato lo stesso Greene decine di volte e compiuto numerosi viaggi in diversi Paesi. L’ultima parte, pubblicata quando Greene era morto da tempo, è però risultata purtroppo «un indigeribile accumulo di curiosità irrilevanti» a causa del decadimento mentale dello stesso Sherry colpito da demenza senile.
Nella sua Roulette russa, Richard Greene prende le distanze, comprensibilmente, dal lavoro di Sherry; ma è una biografia, la sua, che, seppur aggiornata con dettagli tratti dal volume Graham Greene: A Life in Letters (Vintage, New York, 2008) da lui stesso curata a suo tempo, non cambia nella sostanza la visione d’insieme della vita pubblica e privata dello scrittore.
È un libro più maneggevole dei tre tomi di Sherry e in cui c’è un po’ meno sesso: ma appena appena – e, inevitabilmente, bisogna aggiungere -, dato il tipo d’uomo di cui stiamo parlando. Il tutto, comunque – e anche questo va detto -, è accompagnato da un commendevole e sempre puntuale resoconto della situazione politica nei Paesi in cui sono ambientati i romanzi di Greene. Nei quali, insieme alla eco degli spari, grondano copiose le lacrime e il sangue. E i suoi protagonisti, che sono molto spesso in preda a strazianti casi di coscienza, mettono il lettore davanti a rebus teologici simili a certe irrisolvibili disequazioni algebriche.
La vince tuttavia sempre e comunque Greene in quanto scrittore e in grazia di una lingua in cui le parole hanno la stessa inequivocabile precisione dei simboli matematici; e però con il vantaggio di essere, almeno in apparenza, alla portata di tutti. Credenti e non credenti.
Vladimir Nabokov – ce lo rivela Gore Vidal in uno dei suoi scritti autobiografici – addirittura non dava alcun credito alla conversione di Greene, autoproclamatosi a più riprese «cattolico agnostico». Nabokov non entra nel merito specifico, ma doveva aver intuito che una confessione di fede «più superstiziosa, bigotta, cupa e fanatica» di quanto non fosse il presbiterianesimo in cui Greene era vissuto fino a 24 anni, ancor prima che alla sua anima, doveva esser utile alla sua arte.
La succitata etichetta, appiccicata al cattolicesimo (e, comunque, anche all’anglicanesimo e a qualsiasi altra religione cristiana) è infatti la spregiosa sintesi in cui positivisti e miscredenti relegavano, nell’800, l’intero dominio dell’invisibile. Ma è anche quanto di meglio avesse potuto – nel ’900 – trovarsi tra le mani un narratore di fiction a caccia di trame speziate da problemi di natura morale e, meglio ancora, di portata metafisica. Una manna dal cielo, per così dire – dopo tanto modernismo -, e un pot-pourri di ingredienti necessari per creare scandalo e suspense nella mente del lettore incollato alla pagina.
La resurrezione e il peccato originale, il paradiso e l’inferno, il dono della grazia e l’idea stessa di salvezza diventano, nelle mani di Greene, veri e propri theatre props - materiali di scena – per l’allestimento di drammi della mente e della coscienza spesso ambientati in contrade remote e tra anime semplici o semplicemente devote.
Sono, nel loro insieme, gli strumenti per una rappresentazione simbolica della condizione umana, che è però di fatto espressa in un linguaggio diverso da quello, ormai corrente, in un secolo pervenuto alla conclusione che il genere umano possa fare da sé. Che sia maestro e donno del proprio destino e del destino del mondo.
Greene trasforma il tutto in parabole e divertissement, all’interno di un cattolicesimo a cui aveva inizialmente aderito per compiacere la futura moglie e di cui adotta i comandamenti e i riti come fossero miti. E con quelli allestisce la rappresentazione di commedie e tragedie, paradossali e contraddittorie dal punto di vista logico e ideologico, ma capaci di indirizzare l’attenzione di chi legge sul grande quesito della nostra esistenza. Che è, per chi abbia tempo per dedicarvi un pensiero, nientemeno che la vexata questio della vita eterna.