La Stampa, 17 gennaio 2021
Il caso del pianista armeno Tigran Hamasyan
Con la tecnologia che domina sulle pressoché inascoltate ragioni della musica, il pianoforte è forse rimasto l’unico strumento tradizionale che sia riuscito a prendersi una significativa rivincita. Nel tempo ha sfornato solisti integrali alla Ludovico Einaudi o personaggi simpaticamente onnivori come Stefano Bollani. Però questo Tigran Hamasyan che sta salendo nella scala delle pianostar, nato in Armenia nella remota Gyumri, è un personaggio che supera ogni cliché, un soggetto sul quale si butterebbero pure gli scienziati. Tigran ha cominciato infatti a intrecciare melodie a tre anni, sul pianoforte di famiglia, e non si è fermato più. Oggi ha 33 anni e suona dunque da 30: «Mi mettevo al piano a casa, da solo. Non so come successe, ma i miei mi dicevano che suonavo di tutto. Poi a 6 anni mi hanno mandato a scuola».
E’ vero che ha imparato il jazz improvvisando sui dischi dei Led Zeppelin di suo padre? «Sì, ma amavo anche i Black Sabbath, i Queen, suonavo i Beatles al piano. Ma mio zio, fratello di mio padre, era un appassionato di jazz, così ci ho preso orecchio. Lui è stato molto importante per me, un consigliere, poi quasi un manager». Tigran andava a scuola ma pensava solo alla musica: «Composi il primo pezzo a 11 anni, ma ero molto nel Bepop, una sorta di ossessione. Mi piaceva solo quello dei ‘50, ‘60 e la musica classica. Scrivevo tanto. Poi è successo qualcosa a casa di amici dello zio, che ama il jazz con folk, John McLaughlin o Jan Garbarek e anche l’armeno George Gurdjieff. Ho sentito che c’era un sacco di improvvisazione e non più Bepop così ho cambiato genere, ho cominciato un nuovo viaggio con la musica tradizionale: ho cercato di scrivere ma era faticoso, e mi accorsi che c’era molto da fare sul modern jazz di cui non sapevo nulla». Intanto teneva concerti jazz: «Herbie Hancock mi ha ascoltato che avrò avuto 12 anni, Chick Corea aveva sentito parlare di me e dopo qualche tempo, ne avrò avuti 14-15, ero in concerto a Yerevan e c’era anche lui. Era incantato. Mi ha fatto suonare con la sua band».
Il lockdown
Parliamo via Skype con Tigran a Los Angeles. Sono le 10 del mattino sue. Si prende un paio di caffé e sospira sul lockdown, come chiunque: «Con mia moglie e il mio bambino di 9 mesi siamo chiusi in casa da aprile. Usciamo una volta al giorno per una passeggiata con il bimbo e andiamo a trovare i genitori. Ho viaggiato come un pazzo negli ultimi 7 anni e sono un po’ drogato di pubblico e teatri, però il mio processo creativo è di isolamento completo, quindi questa pausa non è male, anche per il bambino. Ma speriamo che tutto finisca presto, appena potrò farò il vaccino». E il suo bimbo, come reagisce alla musica? «Ne ascolta un sacco tutti i giorni. La sua attenzione è molto alta».
Riprende il racconto della vita: «Quando avevo 16 anni abbiamo lasciato l’Armenia e siamo venuti a vivere qui a Los Angeles. Ho cominciato a partecipare a concorsi . Nel 2006 ho vinto il premio come miglior pianista jazz al Telonius Monk Institute of Jazz». Aveva 19 anni. Il famoso zio intanto era sempre attento ad accompagnarlo con naturalezza nei suoi percorsi, senza farne un fenomeno come succede spesso in certe famiglie: «Adesso a 14 anni fanno strategie, tengono 40 concerti l’anno. Però quando sono arrivato a Los Angeles e ho inciso il primo disco, ognuno parlava di me ed ero molto contento».
Nel tempo, Tigran è diventato l’abitante di un territorio musicale solo suo, destinato a influenzare i più audaci appassionati di sperimentalismo. Ha viaggiato il mondo, ha suonato tra l’altro anche in Italia, ha conquistato adepti dovunque. Sofisticato eppure diretto, ancorato alle radici e appassionato di cori armeni ma anche futurista, continua a far l’amore con il jazz, declinato in varie accezioni. Quando compone tira fuori dal baule delle sue passioni di ragazzo squarci di metal, rock e prog metal: «Amo i Tool, i Sugar, le loro energie. Ma mi piacciono anche i Sigur Ros e i Radiohead».
Gli album
Echi di tanti ascolti affiorano anche nell’ultimo album di studio in trio (il nono) uscito in settembre, The Call Whitin, che si apre sulle montagne russe di Levitation 21. Momenti vigorosi che possono farti venire in mente la Mahavishnu Orchestra si infilano rapidamente in atmosfere di calma celeste, poi spunta un paesaggio asiatico e all’improvviso ecco il coro di Gyumri, la sua città natale, nel lirismo di Old Maps. In una frequentazione con la musica lunga quasi quanto la sua vita, Hamasyan ha forgiato un sound eclettico nel quale culture e generi si compenetrano con naturalezza mutando umori e colori all’interno dello stesso brano. E’ musica che va conquistata, una sfida ad abbandonare abitudini comode per entrare in un flusso creativo complesso.
Il pop, come lo vede? «Attualmente non è niente, è triste, non c’è approccio individuale, mettono dieci produttori in un album e vogliono solo far soldi», dice sconsolato. Perché siamo ridotti così? «C’è così tanta musica in internet e dovunque, che la gente ha scordato cosa la musica sia, cosa dovrebbe essere. Tutto è disponibile all’istante. Nei ‘50, la superstar era Charlie Parker: pensi lei all’oggi. Molto prima, la musica nasceva dalle cerimonie, dalle donne che facevano il pane. Era un’espressione naturale». Intanto, a casa Hamasyan il lungo lockdown ha fatto nascere non solo il bimbo, ma anche nuovi album: «Il primo l’ho quasi finito e spero che esca per marzo 2022; il secondo è da incidere, ma ho scritto gli arrangiamenti alla mia maniera di un sacco di standard: il mondo che amo, la canzone francese, napoletana, russa, brasiliana. Però dovrei andare in studio con il Trio, e non si può».