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 2021  gennaio 17 Domenica calendario

Intervista all’architetto Tobia Scarpa

MOGLIANO VENETO (TREVISO) «C’è un virus che resiste ai vaccini e si chiama paura. Sta mettendo l’umanità in fuga da luoghi e abitudini secolari. Le conseguenze di queste mutazioni sono vaste e imprevedibili: di certo cambieranno le città e i meccanismi della convivenza. Per ricostruire un mondo nuovo, resistente alle pandemie, ci vorrebbe la cultura: purtroppo è una materia prima quasi esaurita, almeno nella forma fino ad oggi conosciuta».
Nella sua casa di Mogliano Veneto, Tobia Scarpa lancia l’allarme. «Il Covid scuote ogni certezza.
Tra queste c’è anche il meccanismo di costruzione del consenso, strumento delle democrazie. Il paradosso è che sia proprio la società, ossia l’insieme delle persone, ad alimentare e a diffondere il nemico invisibile che la sta consumando». A 86 anni, Tobia Scarpa resta uno degli architetti e dei designer più importanti del pianeta, tra i miti dello stile italiano. «Oggi però prendo atto che il linguaggio della luce e le relazioni tra le cose non risultano più protettive. Smentendo tali verità, il virus ci spoglia della protezione offerta dalle ipocrisie: dover scegliere tra la morte e verità differenti, ad ogni livello, è il punto cruciale delle crisi innescate dalla pandemia. Come noto, nella vita ogni cosa è collegata all’altra».
Come cambieranno le città, particolarmente colpite dal virus?
«Il problema più preoccupante è che nessuno lo sa. Manca l’esperienzadi una pandemia rapida e diffusa come l’attuale.
Il virus però ci mostra quanto siano sbagliate le città contemporanee.Un esempio: non reggono più il traffico, ma i mezzi di trasporto restano indispensabili. Riprogettare le città sarà la priorità del dopo virus: la mia visione è che si debba ripartire davvero dalle persone che le abitano».
Intende dire che il Covid sta demolendo anche la nostra storia?
«Prima di tutto, dal punto di vista urbanistico, ne decreta la fine. Questo può rappresentare un bene: il guaio è che non permette di chiarire con precisione un futuro alternativo».
Il mercato immobiliare rivela la riscoperta di luoghi spinti ai margini, o riservati al tempo libero: può essere una soluzione?
«La fuga è sempre l’effetto della paura e per questo il suo destino è di esaurirsi. In tutto il mondo però la ricerca di una nuova casa, più propizia e più sicura, emerge come fenomeno di massa solo accelerato dalla pandemia.
Questa volta purtroppo la paura, della malattia o dell’infelicità, può anche salvarci».
Nei giorni scorsi lei ha definito Venezia, isolata dal turismo, “una scatola ormai vuota”: il virus può essere l’occasione per tornare a riempirla di contenuti?
«Venezia, come ogni città, esiste solo se ci sono gli abitanti che la costruiscono, la vivono e la amano. La pandemia rivela il suo deserto, comune a gran parte dell’Occidente. Venezia non è più la casa dei veneziani e si è illusa di poter essere l’albergo, il negozio, o l’ufficio di chiunque. Il Covid, interrompendo la mobilità fisica, ci dice che senza le persone anche le città-simbolo diventano preda di ambiguità e falsità. Il loro epilogo è il fallimento».
Venezia deserta, dall’acqua alta al virus, scuote il mondo: come può rinascere?
«Complice il riscaldamento climatico, il suo destino è sprofondare nel mare. Credo nei miracoli, ma questa è la legge naturale della terra, che prescinde dall’essere umano. Non significa che Venezia vada abbandonata alla rovina a cui assistiamo, ma osservo che rimane assediata dalle industrie e dal consumo del suo mare. Andrebbe trasformata nel nuovo cenacolo globale delle culture: a parole tutti convengono, ma poi nei fatti osservano che costerebbe troppo. Significa che, Covid o no, non si vuole farla rinascere».
Costretti in abitazioni sottodimensionate, soffriamo anche se risparmiati dal contagio: siamo al capolinea anche di grattacieli e periferie?
«Si può vivere bene anche in ambienti piccoli, purché costruiti con amore e con rispetto. Lo scandalo resta la speculazione, precipitato dell’egoismo. Il virus ora ci pone di fronte a case sbagliate perché disoneste: costruite con logiche di massimo profitto economico, non di massimo rispetto per la vita. È una delle lezioni di questi mesi di guerra sanitaria: sarebbe imperdonabile sprecarla».
Il virus, per ragioni diverse, colpisce in particolare due categorie: i vecchi e i giovani.
Si dovrebbe difenderli meglio?
«Direi che restano semplicemente privi di difesa. In passato ho perso due figli: ci penso spesso, so cosa significa l’assenza dell’amore e il consumo della giovinezza.
L’isolamento dei ragazzi, non solo privati della scuola, è un vulnus con effetti già irreversibili. I vecchi adesso vengono vaccinati e con questo si mette una pietra sopra la coscienza: ma continuo a vederli segregati in strutture vetuste, abbandonate, fredde, ideate per escluderli di fatto dalla vita. Scuole e case di riposo, passata l’emergenza, devono avere la precedenza nella ricostruzione del mondo».
Il virus ha calato una distanza nuova tra le persone, fisicamente allontanate: quale impatto ha il dovere del distanziamento per sopravvivere?
«Da architetto devo dire che considero la distanza una grande maestra. Insegna tutto: è un elemento magistrale nel bene e nel male. I suoi effetti, simili a quelli della luce, sono definitivi».
E come è cambiata la sua vita, dopo lo scoppio del contagio?
«Sono un vecchio, dal febbraio di un anno fa ho solo il timore di non essere all’altezza per difendermi. Il Covid ha insinuato un pensiero nuovo e costante: nostro malgrado è la contemporanea unità di misura di ogni azione.
Pensavo di poter essere libero, ho scoperto che era l’ennesima illusione».
Quale giudica essere la minaccia più pericolosa?
«Il rifugio nella superficialità. Se mi arrendo e assecondo solo la natura, va bene. Ma se voglio restare “homo faber” devo impegnarmi a costruire le realtà complesse capaci di far convivere le società avanzate. La superficialità è l’opposto della conoscenza: resistere alla pandemia significa non rinunciare alla conoscenza».
Pensa che l’anno appena cominciato neutralizzi gli effetti del Covid?
«Per la natura, il virus è come un figlio per il padre: la sua eredità è una cosa complicata, misteriosa, ma inevitabile. Entrare in un organismo significa restare biologicamente anche in tutti i successivi. Non ci si può lasciare questo virus alle spalle: si deve accettare la sua presenza, sfruttandolo per migliorarci».
Come?
«Si impara tutto da bambini. La scuola più importante si chiama infanzia. Questa pandemia è l’ultima infanzia dell’umanità. Se rinunciamo a viverla ci condanniamo alla finzione: fino a illuderci che della verità si possa perfino fare a meno».