la Repubblica, 17 gennaio 2021
L’ultimo set di Fellini
L’ultimo film di Fellini, La voce della luna (1990), non ebbe il consenso unanime della critica, malgrado fosse una visione profetica della volgarità del Gran Paese italiano, anticipata in Ginger e Fred (1986): l’orgia del mercato televisivo, volto al consumo, che offre un nuovo palco alle false autorità, alle false notizie e informazioni, a una nauseante falsificazione cosmica. Vi erano tornati tutti i suoi miti, prosciugati, riverberati in una notte dalle domande eterne, che risuonano in spazi ampi come nei canti di Leopardi, o come nelle stanze vuote di Pinocchio.
Fellini inizialmente voleva una metafora di «un’Italia contadina, agricola, ancora condizionata da miti, leggende, fiabe e superstizioni religiose di una società rurale che non è mai scomparsa... nascosta da un assetto industriale e tecnologico in un tentativo di convivenza democratica con aggiornamento pseudoculturale imposto, soprattutto in modo plagiante e volgarmente suggestivo, dalla televisione». Sullo sfondo della Bassa Padana suggerita da Il poema dei lunatici di Cavazzoni: «Nascosta nella nebbia, con i suoi villaggi, i suoi borghi, le sue strade, i suoi filari d’albero che nessuno può indicare con esattezza perché la nebbia fa sparire tutto».
Nel paesaggio dove le costruzioni della Montedison s’innalzano come i castelli medievali, si è schiaffeggiati dalla sagra del falso, dal kitsch pantagruelico e grottesco, ma resta un dolore leggero di fiaba; lo struggersi del violino e l’inquietudine dell’oboe promettono felicità irraggiungibili, spalancano la porta di altri mondi, impossibili da ascoltare senza impazzire.
Il trattamento scritto con Antonio Pinelli, gli appunti, i fogli dei “giornalieri” lasciati da Norma Giacchero, testimoniano la quantità e varietà di fiaba, romanzo, avventura, la ricchezza complessa che fu condensata e resa quasi invisibile nel film. Mi colpisce che Enrica Scalfari se ne fosse resa conto, quando seguì tutti i set dall’inizio, fin dai sopralluoghi a Reggiolo, durante i provini per le comparse, a Bologna e a Napoli, e man mano che il film veniva girato, dal novembre 1987, fino all’estate 1989. Circa un anno e mezzo, ben di più rispetto all’esperienza di Intervista, che pure aveva seguito.
Anche se il fotografo ufficiale era Domenico Cattarinich, Fellini l’aveva invitata a seguire tutto. Abitavano nello stesso palazzo: Fellini e la Masina al piano sopra, erano stati nel 1987 al suo matrimonio: tanti giri e viaggi insieme, lei che guidava sulla Pontina, loro che la vigilia di Natale, dopo essere andati a cena da Patroni Griffi, suonavano da lei, per il brindisi. Fellini che telefonava a mezzanotte passata per lamentarsi degli inquilini all’ultimo piano che facevano rumore: «Non li senti? Ma come si fa a quest’ora...». «Veramente io non posso sentirli: sto sotto di voi». «Che dici, telefoniamo? Pensi sia troppo tardi per chiamare? Ma se almeno si mettessero delle pantofoline...».
Forse la sensazione di ricchezza avventurosa, emozionante, della Voce della luna, dipendeva in parte anche dall’esperienza unica creata da Fellini sul set. Impersonava tutte le parti, seguiva tutti, in un coinvolgimento straordinario e totale: dai macchinisti, agli elettricisti, ai truccatori, agli attori, all’ultima delle comparse, con una cura maniacale. Cercava di trasmettere un soffio di emozione in più. Non c’era bisogno che spiegasse a parole, o imitando le voci, quando impersonava le parti, ma le trasferiva direttamente nell’attore: come si vede, per esempio, in quella foto con lui e Benigni davanti al pozzo, dove Benigni lo rispecchia. L’atmosfera dei set di Fellini era unica. Enrica Scalfari ha conosciuto quelli di Scola, Sorrentino, Tornatore, Bertolucci – forse il più vicino – ma nessuno può esservi paragonato. Tutto veniva condiviso. Vivevano a contatto gli uni con gli altri, mangiavano insieme – solo Villaggio se ne stava per conto suo, con il suo nero carattere ombroso. Mentre Benigni aveva battute, scherzi, improvvisazioni l’una dopo l’altra, come i versetti dedicati a lei stessa: «Enrica seppure donna / che non porta mai la gonna», oppure «Enrica è una donna di dolci passioni, / se porta la gonna e non i calzoni».
La magia indimenticabile dell’esperienza della Voce della luna si manifestò soprattutto nella scena grandiosa della discoteca. Nel vecchio deposito abbandonato dell’Ansaldo dove costruivano i treni – con ancora le rotaie – Fellini girò per quindici giorni la scena memorabile, che nel film dura poco più di tre minuti. Fu girata da più inquadrature, variando i piani e i primi piani, con la camera a mano, da Marco Sperduti. Più e più volte, questa corsa in tondo fu replicata, finché Fellini non fu soddisfatto. Quella scena così a lungo girata ha dato un risultato grandioso: Enrica Scalfari usa il termine «maestosità». Quanto al senso di grandiosità nell’apparato organizzativo, di consapevolezza della regia, oggi forse lo possiede solo Sorrentino, osserva Enrica Scalfari.
Scherzo, grottesco, ironia, gioco, venivano fuori costantemente, nel quotidiano: le gag erano automatiche. Un mattino Fellini e la Masina ai tavolini del bar Canova a Piazza del Popolo, a colazione, la vedono arrivare: «Vieni, siediti con noi». Sopraggiunge un tizio: «Maestro!». E si butta su di lui, emozionato, in un subisso di chiacchiere astruse, voltando la schiena a loro due. Non la finisce. Dopo un po’ Federico: «Le presento mia moglie Giulietta Masina». «Piacere», girandosi appena, continua imperterrito l’altro, schiacciando sia la Masina che lei. «Le presento mia zia», tenta allora di distoglierlo Fellini, dirottandolo su Enrica (che potrebbe essere loro figlia). Anche la Masina non era male, da parte sua. Nell’87, un giovedì sera di prima estate, Enrica Scalfari sta cenando con un amico, quando sente dei richiami: la Masina è rimasta bloccata nell’ascensore, e da un bel po’. Non c’è nessuno. La Mariona, domestica dei Fellini, ha il giorno libero; il portiere è fuori. Non riescono a tirare su l’ascensore – fermo tra un piano e l’altro – e a liberarla. Lei chiama i vigili del fuoco, che, quando fa il nome della Masina e di Fellini, credono a uno scherzo. Gli dice di verificare dall’indirizzo. Allora capiscono: in tre minuti arrivano in otto, con sirene e camion e una scala enorme, più alta del palazzo. Dovrebbero sfondare la porta con l’ascia, è pericoloso perché l’ascensore non è a pari piano: «Che me fate fa’ la morte der sorcio»? La cosa è complicata: un andirivieni degli otto fusti, le voci che si mescolano. Intanto il cane Terranova di Enrica, sdraiato pancia a terra, osserva la scena muovendo la testa di qua e di là, ora verso gli uni ora verso gli altri. Finalmente, tirato su l’ascensore, la Masina è liberata: salta di scatto sul pianerottolo, entra, come se niente fosse, nell’appartamento della giovane amica. Si era già dimenticata tutto: «Che bello, avete ristrutturato... offriamo qualcosa a questi bei ragazzi?». C’era soltanto una Coca-Cola. Fu divisa in otto.
Fellini era capace di notevole generosità. Enrica gli chiese di andare con lei in un campo di girasoli, sulla Flaminia, dove voleva fare fotografie. Lui si prestò. Non solo si fece fotografare, ma allestì la scena. Con il megafono. Mise il proprio cappello e gli occhiali a un grosso girasole, e così Enrica ebbe un doppio regista da fotografare. Difficile pensare che qualche altro regista si sarebbe prestato a fare una cosa simile, perdendo una giornata, gratuitamente, per il solo piacere dell’amicizia e del gioco.