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 2021  gennaio 17 Domenica calendario

La prigionia dei militari italiani in Texas

Il 13 maggio del 1943 gli eserciti nazista e fascista che combattevano in Africa settentrionale si arresero agli anglo-americani. Gli Alleati – che avevano in progetto di sbarcare in Sicilia di lì a qualche settimana e di dare inizio alla campagna d’Italia – si trovarono all’improvviso a dover affrontare un enorme problema: duecentocinquantamila soldati italiani e tedeschi si consegnarono a loro con le braccia alzate e da quel momento si rese necessario sorvegliarli, sfamarli, curarli. Le provviste per dar da mangiare a quella massa di persone erano ovviamente insufficienti e tra i prigionieri cominciò a diffondersi la malaria.
Il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, si rese immediatamente conto che le sue truppe sarebbero state paralizzate se si fossero dovute occupare per più di qualche giorno di quella enorme quantità di gente e chiese al proprio Paese, gli Stati Uniti, di farsene parzialmente carico. Subito dopo li fece trasferire, almeno in parte, nelle aree di Orano e Casablanca, da dove avrebbero dovuto imbarcarsi per l’America. Un trasferimento non semplice che coinvolse oltre cinquantamila persone, racconta Flavio Giovanni Conti in Hereford. Prigionieri italiani non cooperatori in Texas pubblicato dal Mulino. Numerosi prigionieri, destinati al campo di Hereford nei pressi della città texana di Amarillo, ricordano nelle loro memorie «i tristi giorni successivi alla cattura caratterizzati dalla fame, dal caldo, dai parassiti, ma anche dai maltrattamenti e dalle vessazioni da parte dei militari alleati, soprattutto francesi, e a volte della folla». Poi, giunti negli Stati Uniti, furono sparpagliati in campi di concentramento lontani dalle coste, di cui il più conosciuto fu, appunto, quello di Hereford, per il quale transitarono in vari momenti settemila italiani, tra cui molti ufficiali.
Hereford fu famoso anche perché ospitò lo straordinario scrittore Giuseppe Berto, il giudice-scrittore Dante Troisi, il pittore Alberto Burri, il giornalista Gaetano Tumiati (autore di Prigionieri nel Texas, edito da Mursia, in cui si parla di quell’esperienza) e tantissime altre personalità destinate anch’esse, nel secondo dopoguerra, a diventare celebri. Molti di loro sono protagonisti del libro Prigionia: c’ero anch’io curato da Giulio Bedeschi, edito da Mursia.
Di lì a qualche mese da questa traversata dell’Oceano Atlantico, nell’ottobre del 1943 gli Stati Uniti concessero all’Italia di Vittorio Emanuele III – che aveva stipulato a Cassibile l’armistizio reso noto l’8 settembre e dopo qualche settimana era entrata in conflitto con la Germania di Hitler e la Rsi di Mussolini – lo status di Paese cobelligerante. Da quel momento a Hereford la situazione andò peggiorando. Perché? Gli americani avevano avviato un «programma di cooperazione» in base al quale i prigionieri italiani che si fossero offerti volontari avrebbero potuto essere chiamati a svolgere vari lavori, anche vietati dalla Convenzione di Ginevra. In cambio avrebbero ricevuto un trattamento migliore. Il governo italiano presieduto da Pietro Badoglio rifiutò di approvare quella proposta, ritenendo più appropriato e dignitoso che gli italiani catturati mantenessero fino alla fine della guerra il loro status giuridico di prigionieri. In realtà, sotto sotto, le autorità italiane fecero in modo che i nostri connazionali detenuti cooperassero. Nella speranza, sostiene Conti, «che il contributo fornito dai prigionieri potesse essere utile all’Italia al momento di stipulare la pace con gli Alleati». Questo atteggiamento «ambiguo», però, scrive ancora Conti, generò nei prigionieri «grande disorientamento e divisioni drammatiche». Anche perché il governo non inviò mai un ordine preciso in merito alla possibilità di cooperare. 
Ovviamente i prigionieri di orientamento fascista non cooperarono con gli americani. Anche molti comunisti, socialisti, liberali e repubblicani, però, non vollero dichiararsi cooperatori perché diffidenti nei confronti del maresciallo Badoglio, considerato eccessivamente compromesso con il passato regime. Pochi furono i casi di cooperazione anche da parte dei militari che temevano di essere rimandati a combattere, stavolta dalla parte degli ex nemici. Alcuni rifiutarono di lavorare per l’industria degli armamenti, da cui sarebbero venute le risorse per bombardare il loro Paese. Altri perché temevano che si venisse a sapere della loro collaborazione e potessero esserci ritorsioni dei nazifascisti contro le loro famiglie. Altri ancora invocavano «motivi di coerenza» e, pur essendo antifascisti, sostenevano che era immorale «cambiare alleanza nei momenti di difficoltà».
Negli Stati Uniti era impossibile cogliere questi distinguo: i «non cooperanti» vennero considerati «fascisti» e quel giudizio rimbalzò nell’Italia liberata. Alla perpetuazione di questa nomea di una Hereford «fascista» contribuì nell’immediato dopoguerra il libro pubblicato nel 1947 da uno dei detenuti che, tornato in Italia, divenne parlamentare del Movimento sociale italiano, Roberto Mieville: Fascists’ Criminal Camp. La storia nascosta del campo di punizione per prigionieri di guerra italiani in Texas 1943-1946 (Edizioni il Cerchio).

Per quanto possa apparire strano, il momento più drammatico per i detenuti di Hereford giunse nei mesi in cui la guerra sul teatro europeo stava per concludersi: prigionieri ridotti sempre più alla fame (nel giro di quattro mesi il peso medio scese da una media di 68,7 chili a una di 59,6) e picchiati con mazze da baseball. Perché? Il fatto è che proprio in quei giorni vennero alla luce le spaventose condizioni di vita nei lager nazisti. Il 21 febbraio del 1945 il «San Antonio Express» lamentò che i prigionieri dell’Asse in Texas fossero «sovralimentati e coccolati» con un trattamento assai migliore di quello riservato dai tedeschi ai detenuti angloamericani. Quello stesso giorno il «Fort Worth Star Telegram» sostenne che gli italiani e i tedeschi catturati al fronte venivano alimentati meglio dei soldati americani ancora al fronte e protestò, rilevando che la Convenzione di Ginevra non contemplava che i prigionieri «vivessero nel lusso». Ne nacque una campagna radiofonica assai insistente, che ebbe come effetto una riduzione delle razioni alimentari per i detenuti. E comportò un di più di severità nei confronti dei prigionieri, dal momento che la guerra, conclusasi a maggio in Europa, proseguì fino ad agosto contro il Giappone nel Pacifico. Durezza che si accentuò man mano che i soldati statunitensi tornavano a casa: non si voleva potessero uscire foto di detenuti che godevano di condizioni di vita migliori di quella dei soldati americani, nell’ultimo difficilissimo anno di guerra.
Comandante del campo fu dal luglio del 1944 il colonnello Joseph R. Carvolth. Un ufficiale che, dalla documentazione raccolta da Conti, viene fuori come un «ometto rubicondo che portava un toupet color sabbia che a volte gli scivolava con grande divertimento dei suoi subordinati». Carvolth si sentiva «un nume», era disponibile a parlare solo con i «grandi» del campo, «lanciava ordini tradotti in un italiano incomprensibile da soldati italo-americani che conoscevano solo il dialetto». Era «un individuo sgradevole forse anche spregevole» mai indulgente nei confronti degli italiani che considerava non solo dei fascisti, ma anche esseri umani «mentalmente e fisicamente di tipo inferiore». Si deve a Carvolth l’invenzione della «politica della fame» che ridusse i prigionieri di Hereford allo stremo.
Il bubbone scoppiò a ridosso del 5 giugno 1945, quando l’arcivescovo cattolico di Amarillo, Lawrence J. FitzSimon, – che in precedenza aveva visitato il campo e aveva trovato condizioni di vita del tutto normali – fu informato da padre Joseph Saraceno che la fame a Hereford era giunta a un punto tale da provocare svenimenti nel corso delle funzioni religiose. In luglio FitzSimon era tornato al campo e aveva scoperto che effettivamente le condizioni di vita erano drasticamente peggiorate. In ottobre fu consentita una visita dell’ambasciatore italiano Alberto Tarchiani, accompagnato dal segretario dell’ambasciata Egidio Ortona. I visitatori vollero mangiare alla mensa ufficiali dove fu loro servito un «dolce» composto da bucce di patate e arance, giudicato da Tarchiani «molto sgradevole». «Sgradevole» fu un aggettivo usato anche da Ortona per una «mistura di buccia di banana e melassa» che gli fu servita in quel campo e di cui parlò nel diario Anni d’America. La ricostruzione 1944-1951 (il Mulino).

Ortona riferì di aver incontrato in quel luogo di reclusione «gente con sguardo fisso e ostile, con odio per l’America, insofferente all’indottrinamento che il comando del campo cercava di imporre, soprattutto insofferenti di essere costretti ogni mattina a sopportare per due ore spiegazioni sulle virtù e sulle ragioni della democrazia, fornite qualche volta anche da sottufficiali con limitata cultura». Quella visita, scrisse ancora Ortona nel suo diario, «provocò in noi irritazione e indignazione, discutemmo con il comando e con i medici del campo perché si recassero correttivi a una situazione che richiedeva immediato rimedio». 
I rapporti degli italiani con i prigionieri di guerra tedeschi rinchiusi nei campi statunitensi furono complicatissimi, perché i soldati provenienti dalla Germania erano seri, disciplinati e talvolta riscuotevano un misto di ammirazione e di rispetto da parte dei sorveglianti americani. L’opposto di quello che accadeva ai nostri connazionali. In più i tedeschi consideravano gli italiani «traditori» e, per paradossale che possa sembrare, anche i soldati Usa alternavano all’accusa di essere «fascisti» quella di essere «voltagabbana». A Hereford i tedeschi, nella misura di mille unità, transitarono una sola volta per due giorni e diedero vita ad una rissa con gli italiani che durò quarantott’ore, al termine delle quali furono evacuati. Il rappresentante della Croce Rossa Charles Huber rilevò che Hereford ai suoi occhi appariva persino «peggiore» dei campi nazisti e si stupì che negli Stati Uniti i prigionieri tedeschi fossero trattati meglio degli italiani.

Le autorità statunitensi disposero allora un’inchiesta interna che fu ultimata a fine dicembre 1945 per essere consegnata al Dipartimento di Stato e successivamente all’ambasciata italiana. Se i prigionieri italiani avevano il morale basso, era scritto nel rapporto, il fatto era attribuibile «al loro atteggiamento e al loro comportamento sciatto e insolente». I prigionieri italiani a Hereford, proseguiva la relazione «non uguagliano i prigionieri di guerra tedeschi in quanto a disciplina, pulizia, morale o nel comprendere la dignità nel fare bella figura». La loro «assenza di morale», era scritto nel rapporto, poteva essere «riconducibile a varie cause, quali la lunga cattività e la sconfitta del fascismo», ma si poteva «forse anche attribuire alla mancanza di coraggio necessaria a trarre il meglio dalla loro condizione». Un giudizio durissimo soprattutto per quel paragone con i tedeschi meritevoli – agli occhi dei vincitori della Seconda guerra mondiale – di maggior considerazione di quella riservata ai cittadini di un Paese, l’Italia, che da più di due anni era alleato con gli Stati Uniti.
Comunque proprio in quel Natale del 1945 arrivarono al campo razioni di cibo molto più abbondanti, in particolare piedini di maiale lessati e latte condensato in barattolo, con il quale i reclusi fecero anche formaggi e ricotte. Mieville si diceva ironicamente un po’ preoccupato del cambiamento alimentare; prima – si allarmò scherzosamente – aveva un volto scarno, scavato che adesso si era rapidamente trasformato in una faccia florida: «Ci prenderanno per dei castrati», scriveva alla viglia del rientro in Italia, «speriamo che, prima della partenza, cambino dieta». Nel campo arrivò poi una grande quantità di gelato: i detenuti, dopo averne mangiato il più possibile, decisero per gioco di usarlo per dipingere alcune baracche «con il risultato che il campo si riempì di mosche».
A marzo del 1946 i prigionieri furono rimpatriati. Walter N. Hodges e Loyal B. Holland ricomprarono il terreno che avevano ceduto alla Stato perché potesse edificarvi il campo di contenzione. Ma, per la brutta nomea che si era fatta Hereford, poterono riacquistarlo a un prezzo inferiore di quello a cui lo avevano venduto. Guadagnarono rispettivamente 5.000 e 7.000 dollari.