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Biografia di Siegmund Gienzberg raccontata da lui stesso
Mi chiedo se la letteratura aiuti davvero a sopportare una pandemia. Non dico a neutralizzarne gli effetti insidiosi, ma a fronteggiarli con il piglio della conoscenza e della fantasia. Il lungo elenco di autori che se ne sono occupati, almeno da Tucidide in poi, reca qualche riflesso di ironica estraneazione: come se nel leggere degli appestati di Atene o di quelli di Orano, o Milano, o Londra ricavassimo un antidoto alle nostre angosce. Come se quegli autori ci dicessero l’abbiamo raccontata, ci siamo passati e siamo ancora qui. Testimoni di un tempo terribile dal quale si può uscire. Come Dante uscì dall’Inferno.
Pensavo a questo leggendo il nuovo libro di Siegmund Ginzberg Racconti contagiosi (edito da Feltrinelli): colto, informato, a volte spiritoso, ossessionato dalle analogie e dalla coazione a ripetere: «Quello che succede nel corso della lunga storia pandemica, ha tratti ricorrenti. Le malattie virali sviluppano una fantasia prevedibile che a volte prende la forma del capro espiatorio.
Immancabilmente la pandemia viene sempre da Oriente. Un po’ come il conte Dracula. Non veniva anche lui da Est? Oggi forse verrebbe dalla Cina».
La peste è un’ossessione della storia?
«È molto più di una malattia, è una metafora. A volte un’esclamazione. Si contano in Shakespeare ben 118 ricorrenze del termine plague, cioè peste. Anche i lockdown appartengono al panorama sociale. Era frequente durante l’età elisabettiana che nel corso di una pandemia i teatri venissero chiusi. L’epidemia di peste del 1603 tenne per un intero anno Londra in lockdown».
Quando la letteratura comincia a occuparsi della peste?
«Più o meno con Omero. Già i primi versi dell’Iliade raccontano di una epidemia micidiale che falcidia le fila dei greci che assediano Troia».
Perché dici che oltre a essere una malattia è una metafora?
«L’idea stessa di contagio si presta a descrivere la diffusione del virus sociale, la degenerazione della politica, le sue spinte totalitarie. Nella Peste di Albert Camus tutto è metafora. Quella che lo scrittore racconta non c’è mai stata a Orano, in Algeria, negli anni Quaranta. La peste di cui scrive è l’invasione nazista in Francia, è il diffondersi del virus dell’intolleranza e del fascismo».
Sulla nascita del nazismo, il suo diffondersi come un virus, e alcune analogie con il presente hai scritto un paio di anni fa “Sindrome 1933”.
«Colpisce di quell’inizio non tanto il trauma incombente quanto la sottovalutazione del pericolo. L’avvento di Hitler è percepito in Germania distrattamente, nella vita di tutti i giorni prevale un senso di normalità. Anche la stampa internazionale minimizza la conquista hitleriana del potere; si sostiene che il suo governo non durerà che qualche mese. Invece sappiamo come è andata».
Perché questo sostanziale fraintendimento?
«L’abbaglio è stato di credere che Hitler fosse solo lo strumento nelle mani della vecchia classe dominante, mentre con una rapidità sorprendente prese in mano tutte le leve del potere».
Che cosa dovrebbe insegnarci quella storia?
«Non va ovviamente presa di peso e trasportata ai nostri giorni. Però temo molto il presente che imita il passato inconsapevolmente, magari senza neanche accorgersene. Per questo ho parlato di “sindrome”, ed è la ragione per cui sono andato in cerca di analogie».
Ma le analogie possono alimentare suggestioni un po’ facili, non trovi?
«Il rischio c’è: ammesso che la storia si ripeta, non si ripete mai allo stesso modo. È ovvio che oggi non siamo alla vigilia di un nuovo Terzo Reich. Il nostro mondo è molto diverso da quello del 1933. Ma alcuni sintomi e certi atteggiamenti si assomigliano.
Perfino la Repubblica di Weimar, con la degenerazione dei partiti, la politica sempre più impotente e la povertà dilagante, ha un volto per noi a tratti familiare. Le analogie sono per definizione imperfette. Possono portarci fuori strada, ma non possiamo farne a meno. Le mente umana funziona per analogie».
Ho letto che il Papa ha apprezzato il tuo libro.
«Gli ho scritto per ringraziarlo dell’inattesa citazione da Sindrome 1933. Questo Papa non è un improvvisatore e quando, citando il mio libro, ha detto che Hitler era andato al governo sull’onda di una marea di voti, lo ha fatto a pochi giorni dalle elezioni americane».
Pensi ci fosse un pericolo analogo?
«Di Trump mi colpisce la maniera radicale di manipolare l’informazione e al tempo stesso la violenza con cui si rivolge a quella stampa che non è d’accordo con lui».
Tu parli anche del linciaggio mediatico e dell’odio dei nazisti verso i giornalisti.
«Ovviamente non metterei le due cose sullo stesso piano. Anche perché allora fu un crescendo.
Cominciò con il linciaggio dei politici e degli uomini del governo della Repubblica di Weimar. Poi ci fu il linciaggio dei giornalisti democratici. Poi dei giornalisti ebrei. Poi degli ebrei sporchi e delinquenti immigrati dall’Est. Poi degli ebrei tout court. Poi il linciaggio dei “parassiti”, dei poveri e dei malati a carico della “nazione”, degli handicappati e delle “vite inutili”».
Hai origini ebraiche e in un altro libro “Spie e zie” hai raccontato la storia della tua famiglia e di come si trasferì in Turchia.
«Siamo sempre stati immigrati. Generazione dopo generazione. Mia nonna veniva da Corfù. Mio nonno proveniva da quel crogiolo di etnie che era il delta del Danubio: un mondo raccontato, splendidamente, da Elias Canetti. Fino al Settecento erano terre ottomane. Poi appartennero alla Romania. Ma nella Romania di fine Ottocento le nuove leggi proibirono agli ebrei di esercitare diverse professioni, tra cui quella di avvocato. Molti ebrei emigrarono verso Occidente. La mia famiglia preferì l’impero ottomano che riconosceva la cittadinanza agli ebrei residenti nei territori che erano stati sotto il dominio turco. Mio nonno si trasferì a Costantinopoli in cerca di maggiore tolleranza. E io sono nato a Istanbul».
Come viaggiavano gli ebrei da est verso ovest?
«Ci furono molti esodi, compresa l’epopea dei “camminatori” che in decine di migliaia attraversavano a piedi il Paese in lunghe colonne, fino alla frontiera con l’Austria-Ungheria, per poi continuare, sempre a piedi, verso Vienna e Praga, e poi attraverso la Germania fino a raggiungere un porto qualsiasi da cui imbarcarsi per l’America.
Erano viaggi massacranti che di solito iniziavano in primavera. Bisognava affrontare le impervie salite dei Carpazi, nascondersi alle guardie di frontiera, difendersi dalle scorrerie dei più terribili cavalieri ungheresi, contenere l’ostilità dei villaggi, allarmati da quella che giudicavano come un’invasione straniera».
Perché a un certo punto abbandonaste la Turchia?
«Tutta la famiglia lasciò in tempi diversi. Lo zio Bernard volle raggiungere la Russia dopo la rivoluzione d’Ottobre. Aveva studiato alla scuola di agricoltura di Haifa, nella Palestina ottomana. Da lì si usciva sionisti o comunisti e mio zio scelse il comunismo. Le ultime sue notizie risalgono al 1930 a Parigi: a quanto pare faceva la spia per Stalin. E non ho idea che fine abbia fatto. Zia Perla lasciò Istanbul alla fine della prima guerra mondiale per approdare a Praga. Era una donna bella, corteggiata e ricca.
Un’altra zia, la maggiore, sposò un ufficiale turco e finì, schizofrenica, la sua vita in manicomio».
E tuo padre?
«Lasciò la Turchia per raggiungere zia Perla a Praga. Poi venne richiamato alle armi e dovette tornare. Di malavoglia, ma fu la sua fortuna, perché accadde giusto prima dell’invasione nazista della Cecoslovacchia. Incontrò mia madre a Istanbul e si sposarono. Lasciammo Istanbul nel 1956. L’anno prima ci furono delle sommosse organizzate dal governo e dai servizi segreti turchi contro i greci, non contro gli ebrei. Bruciarono, credo per errore, il negozietto di vernici di mio padre. Probabilmente perché l’insegna riportava il nome straniero. Fu alla luce di quelle nuove violenze e dei pogrom che venivano allestiti, che decidemmo di partire per l’Italia, diretti a Milano. Da profughi, per mare».
Come hai ricostruito questa storia familiare?
«Non l’ho ricostruita, ho dovuto romanzare. Ho usato oltre alle parole un repertorio di immagini, di vecchie fotografie alcune delle quali sono andate perse nei miei numerosi traslochi: vecchie foto d’epoca, sgranate, scolorite, inscurite, avvolte da un alone opaco. La mia famiglia ingiallita».
È questa la memoria?
«È una parte, ma poi ci sono i rumori e gli odori. È con queste sensazioni che ancora oggi ricordo la mia Istanbul. Mi resta impresso, in fondo alla memoria, il lamento cadenzato delle sirene delle navi che passavano per il Bosforo, avvolte nella nebbia, lo sferragliare dei tram sulla Grand Rue de Péra, il vocio della folla e il richiamo cantilenante rivolto ai passanti dai venditori d’acqua e di ciambelle ricoperte di sesamo. È questo il fondale su cui si è mossa la mia infanzia. E mi sorprendo al pensiero che, quasi per contrasto, ho totalmente dimenticato il turco».
Questa piccola epopea familiare culmina sulla figura paterna e si conclude con gli anni milanesi: il negozio di vestiti che tuo padre apre, i debiti e alla fine la morte per ictus. C’è molto il senso del fallimento.
«Non credo si tratti di fallimento. Tra i personaggi che ho raccontato è quello che ne esce meglio.
Anche gli altri falliscono. Ma qualcosa al tempo stesso combinano. Zio Bernard che dedicò la vita a Stalin non fallì forse? Mi piace immaginare che sia stato lui a creare il Fronte popolare a Parigi. Fu ammazzato dalla Gestapo o finì in qualche gulag della Siberia? Nessuno lo sa. Però diede una mano a sconfiggere i nazisti. Un uomo non è mai una sola cosa. E a proposito di fallimenti ci fu il mio da cronista quando decisi di andare a trovare la zia Perla, ormai più che novantenne. Non seppi cogliere il momento in cui lei davvero avrebbe potuto chiarire una serie di punti oscuri della nostra vicenda familiare: sulla fine dello zio Bernard o della zia Dolceta reclusa nel manicomio di Istanbul. Ma forse è stato meglio così».
Come cronista hai fatto a lungo il lavoro di inviato e di corrispondente per “l’Unità”. Come giudichi quella lunga esperienza?
«Ero convinto di saper fare il giornalista meglio di altri mestieri e ho cercato di capire e raccontare il mondo che ho visto. Potessi tornare indietro rifarei tutto quello che ho fatto, possibilmente con un po’ meno superbia. Forse, nell’aver girato ovunque e abitato nei posti più diversi — Cina, Stati Uniti, Francia, Iran — avverto l’importanza delle mie radici. Tutto quello che si scrive ha a che fare con le proprie origini».
Cosa è stata e cos’è per te l’identità ebraica?
«Vuol dire essere fiero di far parte di un popolo di vittime. Mio padre non era credente, e nemmeno io lo sono. Ma ci tenne a farmi circoncidere. Un giorno gli chiesi perché. Per rispetto di quelli che sono morti perché erano circoncisi, mi rispose».
Che cosa ti resta di quell’uomo e della famiglia?
«A differenza degli altri membri, lui non era nessuno. Per tutta la vita ha cercato di cavarsela. Era un uomo qualsiasi, che conosceva bene, indignandosi, il peso delle ingiustizie. Il suo sogno era sempre stato di tornare in Europa dove certe cose, diceva, è difficile che accadano. Si ricordava della Cecoslovacchia tra le due guerre. Di quello scampolo perduto di Mitteleuropa. Fu un uomo senza qualità in una famiglia che le qualità aveva dissipato».