Signora Moore, suo padre era legato a Firenze?
«Considerava la Toscana una seconda casa. Ci arrivò la prima volta nel 1925, da ragazzo, per studiare il gotico e il Rinascimento. Per lui Giotto era uno scultore della forma, dato l’impatto primitivo e monumentale delle sue figure. Poi rimase folgorato da Masaccio e passò ore davanti agli affreschi della Cappella Brancacci. Adorava il Michelangelo dei Prigioni e quell’energia che usciva dalla pietra e che lui assorbì nella sua scultura».
Una formazione classica in piena avanguardia.
«Fu rivoluzionario, se ci pensa. All’epoca molti movimenti europei rifiutavano la ricerca accademica, come nella Parigi di Picasso, sedotta dalle culture extraeuropee, votata all’arte primitiva, africana, oceanica. I musei etnografici pullulavano di artisti. Mio padre aderì a un gruppo che credeva nella scultura in presa diretta, nell’estrarre la forma dalla materia e fu fantastico in questo».
Quando tornò in Italia?
«Nel 1954 morì a Forte dei Marmi il suo gallerista Curt Valentin, un ebreo tedesco fuggito in America durante le persecuzioni naziste; aprì uno spazio a New York e lavorò con mio padre e con Marino Marini. Ricordo un volo in piena notte verso l’aeroporto militare di Pisa per i funerali. Fu l’occasione per fermarsi in Versilia».
E scoprì le cave?
«Ebbe l’incarico dall’Unesco nel 1957 di realizzare una scultura da posizionare davanti alla sede di Parigi. Doveva misurare cinque metri per quattro. Lui scelse un blocco di travertino nelle cave di Henraux. Ma, essendo impossibile da spedire in Inghilterra, decise di lavorarlo sul posto. Tornammo al Forte ogni mese per un anno. E, da allora, sempre».
Chi conobbe?
«In quel cenacolo di intellettuali, c’erano artisti, editori, musicisti, scrittori. Divenne amico di Eugenio Montale e incontrò Roberto Longhi, Cascella, Carrà, Messina, oltre a Maria Luigia Guaita della Casa d’arte Il Bisonte che aiutò a risollevarsi dopo l’alluvione del 1966. Poi si legò a collezionisti come Roberto e Anna Maria Papi. Furono anni meravigliosi. Ci portava agli Uffizi e all’Accademia. Adorava la scultura di Matteo Civitali e di Giovanni Pisano».
Si è ispirato a loro per i disegni delle mani?
«Anche. Ma arrivò a copiare le sue, come autoritratti. Quelle degli ultimi anni sono commoventi. Sono mani anziane, piegate dall’artrosi dovuta alla sua professione, fragili e nodose insieme; io vi leggo una dimensione spirituale, un senso di emozione struggente. Ringrazio i curatori per averle messe in mostra».
Che cosa cercava nel disegno?
«Come in tutto il suo lavoro, bramava la terza dimensione nell’eterno contrasto fra luce e ombra, fra bianco e nero. Disegnava per capire lo spazio, misurarlo, penetrare fra le rocce e le radici, a caccia di cunicoli; come quando da bambino, nello Yorkshire, si avventurava dentro le grotte affascinato dal buio assoluto. Penso gli sia rimasto nel cuore in modo indelebile. Lo ritrovò, da adulto, nelle Carceri di Piranesi».
È vero che aveva un tavolo rotante?
«Gli consentiva di girare intorno ai modelli e di copiarli da ogni angolo. I suoi occhi e le sue mani erano come uno scanner in 3D. Quello che fece lui con la scultura non lo aveva mai fatto nessuno. La staccò dai muri e la mise al centro di una stanza per dimostrare che bisognava girarle intorno. Quando si rilassava accarezzava fra le dita un piccolo sasso per interiorizzare la sensazione fisica della forma plastica».
Come si procurò il teschio d’elefante?
«Fu il celebre zoologo Julian Huxley a regalarglielo. Lo teneva in mezzo allo studio e ci vedeva tutto un mondo dentro. Paesaggi di pietra, deserti vellutati, rilievi e architetture, La sicurezza della forma e il mistero del vuoto. Per mio padre, solido e invisibile erano complementari».