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 2021  gennaio 16 Sabato calendario

Biografia di Thomas Bernhard

Nel 1957 Peter Hamm scrisse la prima recensione di Sulla terra e all’inferno, l’esordio di Thomas Bernhard, una raccolta di poesie audaci ma di maniera, se si dà retta a Ingeborg Bachmann, e da questa recensione eccessivamente entusiasta nacque un’amicizia – per quel poco che si poteva essere amici di Bernhard. L’editore Suhrkamp nel 1976 si mise in testa di raccogliere in volume una serie di saggi sullo scrittore austriaco, il cui successo travalicava il limbo della lingua tedesca, e chiese proprio a Hamm – nel frattempo divenuto apprezzato critico – di scrivere un’introduzione. Conoscendo il soggetto e le sue ritrosie, Hamm propose a Bernhard di sostituire il classico cappello con un’intervista, facendo leva sul ventennio di moderata confidenza che avevano. L’intervista fu ovviamente fatta a casa di Bernhard, a Ohlsdorf, nella vituperata Austria, a notte fonda, dopo che intervistatore, assistente e l’imperturbabile autore avevano cenato malissimo in una bettola scelta da Bernhard ( del suo radar per i postacci ne abbiamo avuta generosa conferma in Camminare) – pessimo cibo d’avanzo, pessimo vino.
Era di qualità migliore il vino che ha accompagnato quello che deve essere sembrato un interrogatorio, anche se la consueta impenetrabilità aveva abbandonato Bernhard, come se la conversazione non lo riguardasse, le barriere ridotte al minimo, il registratore che catturava un torrente di parole e bisbigli spesso incomprensibili.
Bernhard ha quarantacinque anni e per la prima volta fa un bilancio della sua vita: il padre mai conosciuto, morto suicida dopo essere scappato in Germania; la tormentata madre; il nonno, scrittore, antico maestro, anticonformista, unico modello di dedizione all’arte; il collegio e l’annientamento della personalità, la tendenza a «opporsi e a essere contro tutto»; i primi istinti suicidi; le prime immobili forme di evasione, il violino, poi il canto (passione materna); lo sradicamento, l’andirivieni tra l’Austria e la Germania nazista, l’apprendistato in bottega come garzone; la «pleurite umida» che perseguita lui e i suoi personaggi – «per un banale raffreddore che mi ero preso scaricando un carro di patate durante una bufera di neve»; l’ospedale, la morte del nonno, ricoverato qualche stanza più in là; la morte che lui stesso sfiora, tanto che gli viene somministrata l’estrema unzione; il periodo al Mozarteum, il tempio del vero e del falso talento; la tesi su Artaud e l’arte della decomposizione («lo scelsi perché sapevo che nessuno della commissione aveva idea di chi fosse»). «Cantavo e scrivevo poesie, a tempi alterni», un’iniziazione obbligata perché non aveva molto altro da fare durante il ricovero e il giro dei sanatori. La prosa arriva qualche tempo dopo in forma di racconti. «Volevo diventare famoso, e il mezzo mi era del tutto indifferente». Nei primi anni Cinquanta per mantenersi fa il cronista giudiziario per il Demokratisches Volksblatt, ed è una palestra cruciale per l’imitatore di voci: «Mi affascinava l’idea di scrivere qualcosa e di poterlo leggere già alle 7 del mattino successivo. Di solito scrivevo cose inventate ». Tra apostrofi e silenzi c’è perfino spazio per l’autocompiacimento: Bernhard considerava Amras la sua opera migliore – «una specie di funivia in prosa, un libro sonnambulicamente esatto», lui che ha sempre scansato gli osanna e mal tollerato i premi beffardi che madre Austria di tanto in tanto gli conferiva. Era scontato che a un certo punto Hamm finisse lì, e Bernhard recita a copione: «Tutto è ridicolo se si pensa alla morte»; poi precisa: «Non sono affatto attratto dalla morte. Chi è davvero attratto dalla morte non potrebbe mai scriverne. Affascina i miei personaggi, certo, ma questa è un’altra cosa». Quando la stanchezza prende il sopravvento c’è la visione più bella: «Tutte le mie opere teatrali potrebbero essere una sola nella quale tutti i personaggi entrano in scena contemporaneamente. Un unico palcoscenico e un’unica quinta, nei quali calarli e fargli recitare i loro ruoli alla rinfusa».
Bernhard non menziona mai l’«unica persona amata», Hedwig Stavianicek – compagna di 37 anni più vecchia, che invisibile, e all’occorrenza tramutata in zia, gli starà vicino fino alla morte; e c’è un solo un cenno «al suo più caro amico» Ferdl, qui solo «il manovale che sta a casa mia». Sono omissioni che pesano, ma appartengono a un livello più profondo e sarebbero servite almeno altre dieci bottiglie di vino.
Quando legge la trascrizione dell’intervista Berhnard rimane turbato: «Testo (orribilmente trascritto) del tutto inservibile. non se ne deve utilizzare nemmeno una riga. Ne può venire fuori soltanto l’ennesima aberrazione». Fine dell’amicizia (con rimpianti), fine della curatela. Peter Hamm ci mette anni a capire le ragioni del rifiuto: quella notte Bernhard aveva ceduto qualcosa di sé, qualcosa che può essere detto solo nel guscio della scrittura e che avrebbe in seguito approfondito in Il freddo, Un bambino, A colpi d’ascia, Estinzione. «Tutto ciò che appare nei miei libri sono comunque io, in una qualche forma» si era lasciato sfuggire verso la fine, non male per un inevitabile «descrittore di superfici».