Linkiesta, 16 gennaio 2021
Il primo caso di porco da lapidare nel 2021
«Ha detto, signora, mio marito le scrive delle mail. Lei gli risponde. Lui fa delle dichiarazioni. Lei si scalda. Quando lei è dispiaciuta, lui si scusa. La consola. Lei lo perdona. E così via. Il problema di questa corrispondenza, signora, è che lei la crede esclusiva». Il problema l’aveva perfettamente individuato Yasmina Reza in Felici i felici, e non poteva che peggiorare nei sette anni da quando scrisse quel libro (che spero abbiate letto, mi secca molto pensarvi qui a perder tempo invece che a recuperare capolavori).
Sette anni in cui si sono moltiplicate le applicazioni di messaggistica, la nostra confidenza coi cellulari, e l’illusione dell’impunità. È andata al contrario di come ci si sarebbe aspettati in un universo in cui il reale fosse stato razionale.
Diciassette anni fa, Paris Hilton veniva svergognata (in un universo in cui fare sesso fosse fonte d’imbarazzo) da un ex fidanzato che ne metteva in rete le prodezze (vabbè) erotiche, da lui filmate. Tutte pensavamo: ma sei scema? Tutte pensavamo: io non mi farei mai filmare, mica sono matta, chi si fida. Poi sono arrivati i cellulari con l’obiettivo fotografico, e tutte, persino le maestre d’asilo di provincia, abbiamo cominciato ad avere archivi che nel Novecento erano forse normali per chi di mestiere faceva la spogliarellista.
Poi, ed è forse persino peggio, sono arrivate le istantanee dello schermo. Quelle che permettono di rendere eterno il messaggio che non puoi quindi più inviare a cuor leggero. Eppure.
Eppure, essendo il reale per nulla razionale, la riproducibilità non ci ha indotti a smettere di fotografarci come non ci saremmo fatti vedere in ufficio, né a evitare di scrivere messaggi che chiunque avrebbe potuto usare contro di noi.
La curva di apprendimento, in quell’universo che è il sexting, è piattissima. Non solo non ci comportiamo come se tutto quello che scriviamo e fotografiamo o lasciamo fotografare fosse inoltrabile e di potenziale pubblico dominio; non abbiamo neanche capito cosa diavolo sia il piano dell’immaginario (parlandone da vivo).
Armie Hammer era i gemelli Winklevoss in The Social Network, ma soprattutto era il seduttore del ragazzino più giovane in Chiamami col tuo nome, ruolo che mi aspetto venga usato per dire che si capiva già lì che era un pervertito (una delle ottime abitudini consolidate dal MeToo è prendere un’opera di fantasia e usarla per dire che si-capiva-già che il porco era un porco).
Adesso, Armie Hammer è il primo caso di porco da lapidare del 2021. Per la verità il primo caso da un po’: ci eravamo distratti con pandemie, neonazisti, e altre amenità, e ci stavamo facendo mancare la bella abitudine di stroncare carriere di gente colpevole d’essere sessualmente sgradevole.
Una tizia che è stata la sua amante pubblica i suoi messaggi. L’accusa è: cannibalismo. No, no, quale piano del simbolico: viene proprio accusato di mangiare esseri umani. Dovrebbe essere un comma 22 – se lui l’avesse mangiata, lei non starebbe su Instagram ad accusarlo di cannibalismo: starebbe nel di lui tratto digestivo – ma no, la stampa sta seriamente titolando indignata circa il cannibalismo di Armie Hammer.
Se vi viene da ridere, sappiate che siete complici. Ieri su Twitter alcune zelanti cancellettiste spiegavano che, ogni volta che ridiamo all’idea del cannibalismo, stiamo ulteriormente traumatizzando quelle che dall’esperienza ancora si devono riprendere. Dall’esperienza del cannibalismo?
Le molteplici signore che sono corse a pubblicare i loro messaggi con Hammer – e non sarò io a dire che lo fanno perché, come il personaggio di Felici i felici, pensavano d’essere l’unica e ora ci sono rimaste male – fanno emergere la figura d’un uomo spiacevole; uno del quale una donna non disperata bloccherebbe il numero di telefono al secondo messaggio. Ma siamo state tutte, prima o poi, donne disperate (state attente a dire «io no», state attente a sentirvi al sicuro). Siamo state tutte, poi, donne che si sono riprese e si sono dette: ma come cazzo ho fatto a farmi trattare così, ma perché non l’ho mandato a quel paese prima. Poi ce ne siamo dimenticate: l’essere umano non è fatto per soffrire dei propri errori in eterno.
Cioè: non lo era. Poi sono arrivati i social, e con essi la pretesa dell’inesistenza della prescrizione, del nostro restare attaccate ai piccoli dolori così da poterli far pagare a chi ce li ha inflitti anche tra cent’anni. Sono arrivati i social; e quindi, se domani al posto di Armie Hammer ci fosse un mio ex, io dovrei cercare in mezzo alla polvere le lettere in cui disperatamente gli elencavo tutte le sofferenze che mi aveva inflitto, dimodoché il rito dello sputtanamento si compisse e a lui venisse tolto il prossimo film così come hanno appena fatto con l’improvvisamente impresentabile Hammer (per fortuna non ho ex che facciano gli attori: i mestieri meno patinati la folla non pretende mai ti vengano sottratti).
Alla tizia che ha scatenato il putiferio, Hammer scriveva «Voglio strapparti dei pezzi a morsi». Lei, evidentemente all’epoca una persona sana di mente che sapeva come rispondere a un messaggio del genere, lo freddava con un: «Quanto sei ubriaco?». Adesso, con la mancanza di senno di poi, quel messaggio le sembra una prova di cannibalismo, così come le foto di porchetta instagrammate da Hammer.
All’inizio di Chiaroscuro, il romanzo di Raven Leilani appena pubblicato da Feltrinelli, la protagonista esce per la prima volta con un tizio con cui sexta da un mese. Non sanno cosa dirsi. Finiscono a parlare del cambiamento climatico. Dopo un mese in cui si sono scritti qualunque zozzeria, nudi a parole su uno schermo mentre sono perfettamente vestiti ognuno alla propria scrivania. È una scena ovvia per chiunque viva in questo secolo, e sappia che, se lo sconosciuto cui scrivi «fammi questo e quello» ti citofonasse pronto a farti questo e quello, fingeresti di non essere in casa.
Poi ci sono quelli che pensano che «ti farei questo e quello» valga stupro, cannibalismo, adulterio, abigeato. È il meccanismo cui fa riferimento Fran Lebowitz quando parla di Anthony Weiner, anche lui con la carriera brasata da uno scandalo sessuale avvenuto senza mai fare sesso.
Gli è bastata qualche foto, e scrivere «ti farei questo e quello». D’altra parte abbiamo anche inventato il concetto di hate speech, no? Le parole valgono quanto i fatti. Piano dell’immaginario l’è morto.