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 2021  gennaio 16 Sabato calendario

12QQAFM10 Intervista a Susan Choi

12QQAFM10

«Proprio questa mattina, poco prima che lei mi chiamasse, ho finito di leggere Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Non pensa sia una coincidenza incredibile che sia lei che Ginzburg abbiate in comune lo stesso giornale, La Stampa?». Susan Choi, cinquantunenne americana, figlia di un professore di matematica coreano e una segretaria ebrea, mi risponde da Brooklyn dove vive e da dove mi riconferma il recente interesse, negli Usa, per la letteratura italiana femminile, forse l’eredità più importante della Ferrante Mania. E le è piaciuto Lessico famigliare? «Molto, soprattutto la pulizia e la chiarezza del linguaggio», risponde entusiasta, e passiamo a parlare di Esercizi di fiducia, grandissimo successo di pubblico e vincitore nel 2019 del National Book Award. È la storia, suddivisa in tre parti e ambientata nella Houston degli anni Ottanta, di un gruppo di liceali studenti di teatro la cui educazione scolastica, e sentimentale, viene segnata da un «cattivo maestro», un professore con pochissimi scrupoli e più interessato alla propria carriera che al bene degli studenti. L’attendibilità della narrazione di ciascuna sezione viene, però, messa sistematicamente in dubbio dalle altre, e quello che resta, dopo un paio di salti sulla sedia, è la sensazione di una verità che sfugge sempre.
Susan Choi, che insegna scrittura a Yale, fa parte di quell’ondata di scrittori asioamericani - tra i quali Ocean Vuong, Alexander Chee, Jia Tolentino, Viet Thanh Nguyen e Celeste Ng - che negli ultimi anni sta iniettando nuova linfa nella letteratura americana ottenendo attenzioni e visibilità sempre maggiori. Per Choi, però, la cosa importante «è che ormai è sempre più chiaro a tutti che quello che raccontiamo non è una storia unica, ma tante storie, diverse le une dalle altre. È un’idea razzista pensare che una minoranza è fatta tutta in un solo modo».
Ci racconta come è nato un libro così originale e conturbante?
«Non avevo pianificato di scrivere un romanzo con questi materiali. Stavo lavorando a un libro completamente diverso, che non ho ancora finito e che non so se pubblicherò mai (la storia del nonno paterno, figura controversa della storia coreana, ndr). Era una lotta continua e frustrante. Per uscire dall’impasse ho iniziato a scrivere la prima parte di Esercizi di fiducia, quella degli innamorati Sarah e David, pensando più a un racconto che a un romanzo. Tornarvi, ogni volta, mi faceva sentire libera, ma non pensavo che avrebbe avuto un seguito».
Poi cosa è successo?
«La rabbia per l’elezione di Trump. È così che è emersa la voce arrabbiata di Karen, protagonista della seconda parte. La campagna elettorale del 2016 mi aveva fatta quasi impazzire, con quel modo così diabolicamente efficace di manipolare la narrazione nazionale, a partire dal motto "Make America Great Again" che mandava un segnale anche a chi genuinamente pensava che l’America dovesse essere un Paese migliore».
Lei è figlia di un immigrato. Immagino quanto l’abbia preoccupata la questione dell’immigrazione.
«Sì. A partire dagli anni Cinquanta, negli Stati Uniti l’immigrazione è stata via via sempre più liberalizzata, fino a quando, a metà dei Sessanta, il Paese si è aperto anche agli asiatici. Nei Settanta, cioè quando sono cresciuta io, l’idea che i cancelli fossero aperti era ormai assodata, e quella storia sembrava avere avuto un finale "positivo", nella direzione cioè di maggiori tolleranza e inclusività. Improvvisamente, Trump ha capovolto tutto. Ci ha fatti tornare all’inizio del secolo scorso, e lo ha fatto in modo facile e veloce. Karen è arrivata proprio allora, in rappresentanza di tutte quelle persone la cui storia viene narrata da altri e, per questo, si sentono furiose».
Ha detto che la prima cosa che le è arrivata di questo libro è stato il titolo. È stato lui a guidarla?
«Se mi ha influenzata è stato in modo totalmente inconscio. Solo quando ho finito di scrivere mi sono resa conto che in ballo, nella storia, c’erano anche altre forme di fiducia e non solo quella che riguardava la recitazione a cui accenna il titolo».
Questo non è il primo libro in cui esplora il rapporto insegnante-alunno (ne aveva parlato anche in "The Foreign Student" e "My Education", ancora inediti in Italia). Come mai?
«Quello dell’educazione è un mondo che conosco bene sia per esperienza personale, sia per via di mio padre, che ha sempre insegnato. In quell’atmosfera ci sono cresciuta e nel tempo, riflettendoci, quella tra professore e studente mi è sembrata una relazione molto più complessa di quello che si pensa, perché implica sia la fiducia che il potere. Un potere che, pure se in maniera completamente diversa e sbilanciata, è esercitato anche dallo studente».
Karen, la protagonista delle seconda parte, è ossessionata dall’etimologia delle parole. Lo è anche lei?
«Sì, ed è una passione che mi ha trasmesso la psicologa da cui andavo anni fa. Era una estremamente fissata sulle parole che usiamo, sull’importanza di distinguere tra ciò che è pensiero e ciò che è sentimento. È uno sforzo che all’inizio sembra ridicolo, ma poi, se superi la pigrizia e presti attenzione alla parola davvero giusta, ti condiziona i pensieri».
Restiamo su Karen: le fa usare la prima e la terza persona nella stessa frase. Perché?
«Non era premeditato, ma di solito sono i personaggi stessi che arrivano e iniziano a parlarmi con la loro voce. Il modo che ha Karen di raccontare la propria storia assomiglia a quello dei bambini piccoli. Se ne guarda con attenzione uno mentre gioca, a volte lo sentirà raccontare delle storie su di sé alternativamente in terza e in prima persona. Di sicuro lo facevo io quando, da piccola, andavo in giro parlando a tutti dell’"emozionante vita di Susan", una specie di film sulla mia vita. Per Karen mi è sembrato naturale pensare a una prima persona meno consapevole e a una terza più conscia, una fluidità che è piena di significato».
"Esercizi di fiducia" fa anche parte di una certa letteratura femminista affermatasi dalla nascita del movimento MeToo.
«Quell’hashtag del 2017 ha solo dato un nome a qualcosa che noi donne conosciamo da sempre. Per anni, anche molto prima che scoppiasse il caso Weinstein, ho seguito le notizie su quelle studentesse che, pur avendo subito abusi da parte dei professori, avevano paura e si sentivano colpevoli. Mentre scrivevo questo libro, stavano uscendo allo scoperto queste e molte altre storie».
Zadie Smith, nel suo "Questa strana e incontenibile stagione", parla di «misoginia interiorizzata», e anche lei nel suo libro dà rilevanza all’atteggiamento che le donne stesse hanno nei confronti di quelle che denunciano le violenze.
«È una questione molto complicata, perché il sessismo è qualcosa in cui siamo immersi tutti, anche noi donne. Più invecchio, più apro gli occhi, più mi rendo conto che ogni struttura sociale di cui ho avuto esperienza è profondamente sessista. Tutte sono state costruite sull’assunto che gli uomini hanno il potere e che le donne, se si comportano come gli uomini, possono forse ottenerne un pezzetto anche loro. È un pensiero così profondamente radicato che influenza anche noi. Il primo passo per uscirne è riconoscerlo, riconoscere il modo in cui guardiamo le altre donne, parlarne».
Domanda a rischio spoiler, che però cercheremo di evitare: molti lettori, alla fine del romanzo, si chiederanno qual è la parte che racconta la «verità». Almeno a lei è chiara?
«Nelle mie intenzioni la terza parte, che è quella con uno stile narrativo più tradizionale e un narratore onnisciente, avrebbe dovuto essere quella "vera", almeno per ciò che si intende per "verità" in un lavoro di fiction. Ma da quando è uscito il libro, ho parlato con molti lettori e ognuno aveva una interpretazione. Il fatto è che mi sono resa conto che ognuna era ugualmente supportata dal testo».