Tuttolibri, 16 gennaio 2021
12QQAFA11 Biografia di Dashiell Hammett
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Te lo immagini un muscolare rodomonte. Invece è un «piccolo uomo» senza nome, con dieci chili di troppo che «tira avanti giorno per giorno attraverso il fango, il sangue, la morte e l’inganno». Deve anche discutere sulle note spese perché l’amministrazione gli contesta gli inseguimenti «fuori sede». Insomma il primo vero esemplare dell’hard boiled moderno più che un eroe è un salariato, un lumpen-detective alle dipendenze della Continental di San Francisco. Dashiell Hammett lo creò a propria immagine e baldanza su Black Mask, rivista pulp per le classi operaie (bello sociologicamente sapere che un tempo i borgatari americani leggevano invece di stordirsi di birre davanti alla tv o sui social suprematisti). Ci restò per 28 racconti e due romanzi a puntate che ri-escono in un volume curato da Richard Layman e Julie M. Rivett. A parte l’abbozzo di una novella inedita, i testi erano tutti disponibili in italiano. Ma il ponderoso Oscar Baobab è comunque prezioso perché contiene un inquadramento cronologico-biografico che ricostruisce l’evoluzione del personaggio in relazione agli umori, alle fisime, all’estetica dei direttori della rivista.
In quel disincanto, in quella tenacia ironica a risolvere i peccati della grande San Francisco tumefatta dal proibizionismo si riverbera la vita di Hammett che aveva fatto sul serio il detective, per la Pinkerton, a 21 dollari la settimana. Nonostante superasse il metro ottanta, era bravo nei pedinamenti («Capace di star dietro una goccia d’acqua salata dal Golden Gate fino a Hong Kong senza mai perderla di vista»), compito noioso che gli affinò lo spirito d’osservazione e la capacità di descrivere la preda con pochi tratti per passarla a qualche altro collega. (E poi sbozzarla in letteratura).
Durante la guerra Hammett aveva servito in un’unità medica a Fort Bragg, dove venivano ricoverati i soldati contagiati dalla spagnola in Europa, e s’era beccato la tubercolosi. Sposata la sua infermiera, Josephine Dolan, aveva messo al mondo una figliola. A 26 anni doveva capire come campare. Con il fisico minato non lo volevano più riprendere a fare il detective. Provò con un corso di giornalismo, e con articoletti umoristici che gli pubblicavano per niente. Per caso approdò a Black Mask, che stava inventando un nuovo stile nella narrazione poliziesca, tutto azione e cattiveria, rivolta agli «appassionati di omicidi».
Lui aveva nel curriculum una conoscenza sul campo del crimine. E sapeva scrivere con uno stile veloce, nervoso, guizzante come un verbale, senza aggettivi né avverbi per interi capoversi. Dopo qualche racconto con pseudonimo nell’ottobre del 1923 uscì Incendio doloso. Il primo, con protagonista un «Op». Oltre a non avere nome, come tutti i detective che devono essere invisibili, non ha quasi carattere, desideri, fisionomia. Disincantato ma non cinico, onesto ma pronto a trasgredire la legge, rintraccia ereditiere rapite, rapinatori, ladri, scassinatori, assassini, drogati, fanatici religiosi. La «scientifica» agli albori dà un aiutino, ma i casi si risolvono con pedinamenti, soffiate di allibratori, portieri d’albergo, tassisti. Le intercettazioni telefoniche si fanno corrompendo una centralinista; i poliziotti, che non hanno ancora l’auto di servizio, devono fermare gli automobilisti di passaggio per finire un inseguimento; e (meraviglia!) i giornali sono ancora la memoria, il motore della realtà, lo strumento indispensabile (pre-google) per orientarsi nel mondo: se vuoi trovare una persona scomparsa o tendere una trappola all’assassino devi far pubblicare un articolo dal cronista complice.
Nel giro di pochi racconti, Hammett diventa uno degli scrittori più popolari di Black Mask. Il suo detective conquista perché è più astuto, più umano, più simpatico della polizia manesca. Porta la pistola, ma preferisce non usarla e ripiega sui cazzotti. Quando nel 1924 arriva il nuovo direttore, Philip C. Cody, tanto mite e sordo quanto truculento nei gusti, i racconti si allungano e l’Op comincia anche a uccidere. Le storie diventano più sanguinarie, i truffatori più spietati e soprattutto compaiono donne belle come diavoli, perfide, pericolose, d’ora in poi icona fondamentale del noir letterario e cinematografico. Se prima i personaggi femminili erano slavati adesso le bambolone fatali sanno di avere nel corpo un’arma micidiale per far perdere l’intelletto a qualunque maschio come nel meraviglioso La ragazza dagli occhi d’argento («Era qualcosa che poteva far nascere pensieri folli anche nella mente di un segugio di mezz’età privo di immaginazione»), ma l’anonimo Op, resta con i piedi per terra. Mentre i suoi epigoni sciuperanno le femmine con compiaciuta misoginia, lui è troppo ironico e autocritico per non capire che se una cerca di baciarlo gatta (morta) ci cova.
A un certo punto Hammett ruppe con Black Mask per una questione di quattrini lesinati. Si mise a fare pubblicità per una gioielleria. Ma lavorava con eccessiva dedizione. Lo trovarono mezzo morto di fatica in una pozza di sangue. Il nuovo direttore della rivista, il raffinato Joseph Thompson Shaw esperto di tessuti, polo e golf, rivolle assolutamente Dash, il migliore, l’unico che sapeva raccontare il crimine come una lurida faccenda umana, e non un rompicapo da enigmisti in pantofole. Gli chiese racconti sempre più rocamboleschi. Il primo del nuovo corso (1927), La grande rapina, (nella traduzione creativa di Attilio Veraldi, lo scrittore che inventò l’hard boiled napoletano) è un esempio perfetto di avventura in grande stile. Racconta di un colpo spettacolare alla Seaman’s National Bank compiuto da centocinquanta malviventi che sparano, bloccano la città come in un’azione di guerriglia, umiliano la polizia. Tocca al vecchio Op risolvere la faccenda, girando frenetico e insonne per night, angiporti, alberghetti equivoci. Spara, picchia, spacca bottiglie sul cranio dei cattivi; affronta una donna statuaria che mostra provocante biancheria color orchidea e sa come maneggiare uomini e pistole, e una graziosissima fanciulla che si chiama Nancy Regan (più o meno omonima di una futura first lady; l’altro presidente, il contemporaneo Wilson, l’assassino degli imperi centrali europei, invece fa la figuraccia di farsi borseggiare a un vaudeville). La vera mente criminale, però, è ben mimetizzata altrove. E si scopre, come d’abitudine, all’ultima riga, sorprendendo il lettore e lasciando il finale aperto a un sequel (per indurre il lettore a comprare ancora la rivista).
Preso vigore e autocoscienza autoriale, Hammett lasciò Black Mask e imboccò la via del romanzo. Partorì nuovi (anti)eroi come Sam Spade reso eterno da Humphrey Bogart. Stesso disincanto dell’Op. Ma con nome cognome, psiche stropicciata, ufficio autonomo. I suoi noir erano ormai letteratura pura. E chissà dove sarebbe arrivato, con quel talento e con quella capacità di avvincere il pubblico. Solo che l’uomo Dashiell era più eroico e idealista dei suoi personaggi di carta. Caso raro, di solito capita il contrario. Credeva nella giustizia sociale del marxismo. Che ai tempi di McCarty, nella democratica America, era un crimine grave. Finì nella lista nera, si rifiutò di denunciare i compagni, passò cinque mesi in galera nel 1951. Lo Stato lo perseguitò caricandolo di multe e nessuno più lo fece scrivere. Morì triste, povero, malato, aiutato dagli amici e dalla misera pensione di veterano (131,10 dollari al mese). Prima che gli riabilitassero il coraggio, la dignità, lo stile.
È stato un grande scrittore. Questi racconti, brevi, asciutti, terribilmente romantici, hanno il sapore del tempo perduto. Tengono testa ai grandi del ‘900. E soprattutto ci fanno capire chi è l’ur-genio della letteratura poliziesca, capace di sorridere di fronte alla 38 conficcata nel fianco e di spintonare lontano la fatalona che gli sussurra dolci bugie con un fiato così bollente che scioglierebbe i ghiacci dell’Antartide. Senza lui il Giallo sarebbe fermo a Caino e Abele. Fatevi un regalo, per qualche sera spegnete Netflix e dedicatevi ad Hammett.