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 2021  gennaio 16 Sabato calendario

135QQAFM10 Intervista a Kawaguchi Toshikazu

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Dalla stazione di Jimbocho, il quartiere delle librerie di Tokyo, serve camminare fino all’insegna del Cafè Funiculì Funiculà, scendere un numero imprecisato di scalini, ritrovarsi nel sotterraneo. Varcare una porta di due metri, accomodarsi su una certa sedia, ordinare un caffè. Le leggende metropolitane parlano di una caffetteria dove sia possibile viaggiare nel tempo. I gestori lo confermano ma le regole sono così rigide che a molti passa la voglia. Perché, pur viaggiando nel tempo, non c’è modo di cambiare il corso degli eventi: chi deve morire morirà, chi non deve sapere qualcosa non la saprà. E poi la durata è, letteralmente, quella di un caffè. Serve berlo finché è caldo.
Questa è l’ambientazione del best-seller internazionale Finché il caffè è caldo (Garzanti) e del suo seguito Basta un caffè per essere felici. Kawaguchi Toshikazu, classe 1971, è un regista teatrale che a 44 anni si è cimentato per la prima volta nella narrativa e ha venduto più di un milione di copie.
Ho appuntamento con Kawaguchi a Tokyo nella sede della Sun Mark Publishing a Takadanobaba alle 11. Ascensori, interfono, spray, mascherine. Arrivo in anticipo e mi godo la vista degli uffici spalmati su due piani, il personale che in buona parte lavora da casa. Mentre lo attendo, accenno al fatto che il format dell’opera - nato sulle scene di uno spettacolo teatrale scritto e diretto da Kawaguchi - potrebbe continuare all’infinito: in fondo ogni personaggio che decide di viaggiare nel tempo meriterebbe un racconto. È allora che la editor, Ikeda-san, sorride e annuncia che: «Kawaguchi-sensei sta scrivendo proprio in questo momento il quarto volume».
Kawaguchi arriva, si inchina. È un uomo piccolo e muscoloso. Il suo sorriso è così contagioso che, né la mascherina né i pannelli di plastica che tagliano in sei blocchi il tavolo, lo affievoliscono. In quindici anni di Giappone ho imparato tuttavia che dietro il sorriso dei giapponesi si nasconde spesso il suo contrario, che più dura è stata la vita di una persona più luminoso è l’atteggiamento con cui quella la affronta. Nella prima domanda che gli rivolgo ne ricevo conferma.
Ho letto che l’idea di "Finché il caffè è caldo" e dei suoi sequel, la particolarissima visione della morte che propone - come di una cosa che solo accettandola positivamente aiuta le persone ad affrontare il presente - proviene da un suo lutto personale.
«Ho perso mio padre che ero in terza elementare. Mia madre rideva al suo funerale e io ricordo di aver pensato "Ma questa cosa si ride? Perché prepara del succo di frutta come se nulla fosse?". Solo da adulto ho capito quanto importante fosse stato il suo sforzo di mantenere allegra l’atmosfera familiare».
Kawaguchi ha una voce squillante e l’ironia scanzonata delle persone dell’ovest del Giappone. È nato a Osaka eppure l’accento lo ha perso. Se ne avverte lievissima la cadenza solo quando recupera i ricordi d’infanzia, come adesso, quasi che il tempo avesse addosso il calco di una lingua. Questo atteggiamento nei confronti della morte è anche uno dei messaggi centrali dei suoi romanzi, ovvero che chi ci amava, e per una qualunque ragione viene meno, non vorrebbe mai che sprofondassimo nella disperazione a causa loro.
Kawaguchi ripete un’espressione che ho sentito usare soprattutto dalle educatrici in Giappone: ikiru chikara. Ikiru è vivere e chikara è la forza, la forza di vivere, l’energia vitale che coltiviamo in noi fin da bambini e che è determinata dalle scelte di chi si occupa di noi, dalle persone che incontriamo negli anni e, infine, dalla nostra personale capacità di continuare ad allevarci per il resto dell’esistenza.
«Un’amica con cui ebbi una relazione d’amore in gioventù, anni dopo mi chiese consiglio. Aveva avuto un aborto, non riusciva a dirlo al compagno. Era distrutta. "Credi sarebbe felice quel bambino a sapere che ti ha portato tanta sofferenza?" le ho domandato. "Concentrati invece sulla sensazione di gratitudine per averti reso madre, anche se per soli 70 giorni, per la gioia che hai provato nel sapere di aver avuto quella piccola vita dentro di te". All’inizio le sembrai probabilmente pazzo, ma il punto non era aver perso il bambino, il punto stava nel fatto che quella vita era venuta a lei e non doveva provare dispiacere ma riconoscenza. Ho saputo che dopo quella nostra conversazione ha parlato con il suo compagno … e ora credo che abbia tre o quattro figli» ride.
Ricordo questa identica scena in "Basta un caffè per essere felici", sequel in cui si sciolgono tantissimi misteri lasciati in sospeso nel primo.
«Ho pianto tantissimo scrivendo varie scene di questo libro. È forse quello più autobiografico dei quattro. Il terzo e il quarto capitolo, soprattutto».
Nella terza storia c’è al centro un figlio con gravi problemi finanziari.
«Ci sono stati anni in cui avevo solo 200 yen per sopravvivere una settimana. È stata davvero dura… Sa, sono partito da Osaka e sono venuto a Tokyo perché volevo diventare un mangaka. Mi vede? Quello che ha davanti è un corpo fatto all’80% di manga. Poi ho iniziato a fare teatro, la più grande passione della mia vita».
La stazione di Takadanobaba da cui sono uscita questa mattina mi pare allora un presagio, i lunghissimi murales che descrivono le opere di Tezuka Osamu - il padre del manga giapponese - che si aprono subito oltre i tornelli.
E l’amore?
«Questo è un dettaglio super personale ma… un’amica maga mi ha detto che io e l’amore non andiamo proprio d’accordo. Non sono sposato, non ho figli. Non è nel mio destino, diciamo. La verità è che amo moltissimo il mio lavoro, tutto nella mia vita è stato votato a quello»
Come lavora?
«Ho scritto lo scenario di Finché il caffè è caldo in una ventina di minuti. Quello di Basta un caffè in un paio di giorni. La difficoltà per me viene dopo, lì sono davvero lento. Vero? (Lo dice rivolgendosi alla editor. Il profilo di questa donna cadenzerà tutta l’intervista perché la sua collaborazione per Kawaguchi è fondamentale. Ikeda-san i libri se li va a cercare. Cattura storie, è lei che chiede all’autore di farne un romanzo. Finché il caffè è caldo è nato così, ndr). Tutto parte sempre dal titolo. Da un abbinamento di suoni che mi piace».
Snocciola con le dita il numero di sillabe che compone il titolo giapponese. Solo in quel momento noto la costola dei tre libri finora pubblicati, poggiati a lato della scrivania: sono della stessa identica lunghezza.
«Poi passo a descrivere i rapporti umani. Elaboro ogni volta un plastico su cui poi sposto le pedine che rappresentano i personaggi in modo da visualizzarli sulla scena».
Muove le mani su un grande rettangolo immaginario davanti a sé.
«Non penso mai al plot, mi concentro sui personaggi, come sulla scena».
Paiono soluzioni chimiche…
«Sì, li metto insieme e poi sto a guardare cosa succede. Di reazione in reazione la storia cambia. Se è interessante la seguo»
Sentendolo parlare mi accorgo che Kawaguchi segue la vita, non cerca di piegarla per farne qualcosa. Gli pare già sufficientemente interessante da sé.
Questa domanda gliela avranno fatta decine di volte, ma se lei potesse tornare nel passato, con chi deciderebbe di parlare?
«Con mio padre, vorrei raccontargli cosa è accaduto, come ce l’abbiamo fatta anche senza di lui. Sarebbe sollevato. Gli mostrerei i libri, gli racconterei cosa del teatro, del film, dell’estero. Vorrei renderlo fiero di me»
Alle sue spalle il cielo di Tokyo è di un azzurro che incanta, altissimo. Sotto, un affastellarsi straordinariamente armonico di edifici di altezze, grandezze, colori diversi.
«Peraltro mia madre è molto invecchiata, non dico che stia male, anzi è ancora in salute ma qualche anno prima che uscisse Finché il caffè è caldo aveva perso, come dire, il desiderio di vivere. Forse la stanchezza, forse semplicemente era arrivata a quel punto della vita in cui tutto scorre senza una spinta»
Kawaguchi racconta della première del film che ha riassunto la storia dei primi due volumi, Finché il caffè è caldo e Basta un caffè per essere felici. Una produzione giapponese che ha visto la partecipazione di attori amatissimi in patria.
«Ricordo il sorriso di mia madre, la sua felicità quella sera. Mi è parso finalmente di essere riuscito a restituirle qualcosa»
"On-gaeshi". È la parola che riassume la riconoscenza, il senso profondo di restituzione dei figli nei confronti dei genitori. Quel vincolo di gratitudine che è parte del carattere giapponese e lo rende più saldo nei legami di sangue. Il successo allora è questa cosa per lei?
«Soprattutto, sì» annuisce dolcemente.
Ricordo ancora, al tempo dell’uscita del primo volume, i treni di Tokyo tappezzati di manifesti pubblicitari. Quando un libro arriva lì, si capisce non soltanto che ce la sta facendo, ma che la sua storia è in grado di cambiare l’immaginario nazionale.
«Ciò che il successo ha cambiato praticamente della mia vita è stato poter lasciare il lavoro part-time e dedicarmi completamente al teatro. Lavoravo in un ristorante di tenpura. Ero proprio portato, mi è sempre piaciuta la gente. Il proprietario voleva farmi un contratto a tempo indeterminato. Insisteva, ho dovuto lasciare», ride.
Il suo romanzo sta avendo un successo incredibile anche fuori dal Giappone. Il messaggio del resto è universale. Eppure, a differenza di altrove, in Giappone più si è intimi, più ci si ami, più si fatica a parlarsi in modo chiaro. I sentimenti paiono l’ultima cosa che si può svelare: si usa maggiore cautela perché il sentimento dell’altro è importante, non gli si vuole rubare spazio.
«Ci si finisce per dire meno, è vero. Ci si costruiscono nella testa idee che non hanno nulla a che fare con quello che l’altro pensava o sentiva. Il viaggio nel tempo serve perché abbiamo tutti il rimorso di non aver detto qualcosa, ma non cambia le cose che accadranno. Ciò che cambia è l’attitudine di chi resta che, se vuole, è la cosa più importante»
Sono importanti proprio i suoi libri, in questo particolare momento storico. Parlano di perdita e di rimorso, di quanto serva accettare la morte non dimenticando mai la gratitudine per la vita nostra e degli altri. Non è la fine del viaggio che conta, è tutto il percorso fino a lì. Kawaguchi si fa quasi imbarazzato, più emotivo. Non ride e in quel piccolo spazio capisco che finché si tocca la propria sofferenza si può sdrammatizzare, ma quella degli altri è tutta un’altra cosa.
«Se tutta la sofferenza che ho provato, la vita durissima che ho alle spalle è servita a portare un messaggio di coraggio a così tante persone nel mondo, beh… ne è valsa la pena».