La Lettura, 17 gennaio 2021
4QQAFM10 La Mitteleuropa del principe Matila Costiescu Ghyka
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La varietà e la qualità delle esperienze e delle conoscenze fanno della vita di Matila Costiescu Ghyka (1881-1965) una specie di leggenda avventurosa con molti aspetti iniziatici ed esoterici, ai quali si aggiungono gli attestati di stima di amici ed estimatori come Paul Valéry, Marcel Proust, Mircea Eliade. Il principe sconosciuto si intitola la biografia, uscita in Romania nel 2020, che gli ha dedicato Vasile Cornea: in effetti Ghyka era discendente, per parte di madre, dell’ultimo sovrano della Moldavia. Fu un matematico, un esperto di arte e di poesia, un militare, l’ambasciatore della Romania a Londra per tutti gli anni Trenta. E limito l’elenco ai fatti più salienti. La fotografia più diffusa ce lo mostra in alta uniforme, il petto coperto di decorazioni e medaglie, lo sguardo obliquo e assorto di certi nobili di van Dyck. L’aristocrazia spirituale, per Ghyka, non era un’alternativa a quella del sangue, ma il suo completamento e la sua verità ultima. E la bellezza è il motore, a volte segreto a volte evidente, di ogni destino umano, di ogni realizzazione.
Nel 1931, Ghyka pubblicò il libro a cui più è affidata la sua memoria, e che viene ancora oggi regolarmente ristampato in molte lingue: Il numero d’oro, vasto e sapiente trattato in due volumi dedicato, come recita il sottotitolo, ai «riti e ritmi pitagorici nell’evoluzione della civiltà occidentale». L’introduzione la scrisse Valéry, e il saggio ha esercitato una profonda influenza tra molti grandi artisti del Novecento, come Le Corbusier e Dalí, affascinati dai segreti della sezione aurea e dalle arcane leggi delle proporzioni che governano con strabilianti analogie le creazioni della natura e quelle dello spirito umano.
Nel 1933, Ghyka rivelò un ulteriore talento, pubblicando un romanzo, l’unico della sua vita, intitolato Pioggia di stelle, proposto dopo quasi un secolo di oblìo dalle Edizioni Atlantide nella traduzione di Maria Sole Iommi.
Ghyka appartiene, con Ionesco e Cioran e tanti altri, a quella costellazione di romeni che, rinunciando alla lingua materna, hanno arricchito la letteratura francese di un inconfondibile brivido metafisico e insieme quasi surreale. Il suo libro uscì nella gloriosa collana gialla di Gallimard, la stessa della Recherche dell’amatissimo Proust. È pur vero che quando questi sapienti e iniziati come Ghyka si danno al romanzo, quasi sempre sono dolori. Per fare l’esempio di un altro grande romeno, vale più un saggio minore di Mircea Eliade che tutti i suoi fumosi romanzi messi assieme. Ma ci vuole poco a liberarsi del pregiudizio via via che ci si abbandona alla lettura di questo libro di cui si può dire che è strano almeno tanto quanto è bello. Strano perché i personaggi di Ghyka vivono in un mondo talmente squisito e astratto di diplomatici e aristocratici, che loro stessi sembrano svuotati di viscere, pulsioni, traumi. Ma finiscono per piacerci, perché anche l’essere impeccabili, che sembra lo scopo ultimo di questi uomini e di queste donne, è di per sé un’arte e una passione.
L’azione si svolge in pochi mesi, tra il 1927 e il 1928, a Vienna e Praga, con un epilogo a Londra: un’epoca equidistante dalle due grandi catastrofi del Novecento, sospesa in una specie di lentissimo crepuscolo. Ghyka tesse con pazienza, particolare dopo particolare, senza mai dimenticare il taglio di un vestito o l’arredamento di un salotto, una tela narrativa che sembra consistere esclusivamente di relazioni umane, goethianamente intese come affinità elettive e simpatie nel senso rinascimentale e magico della parola. È all’interno di questa densissima materia psichica che la trama, di cui pure il romanzo è dotato, smarrisce i suoi contorni netti. Perché un evento realmente significativo emerga dal minuzioso tessuto delle premesse, bisogna aspettare pagina 123. Ma sto descrivendo tutt’altro che un libro noioso. Pioggia di stelle è l’ennesima dimostrazione che il barile magico della Mitteleuropa non si esaurisce mai, e dopo una latenza così lunga il libro sembra avere conservata intatta la sua capacità di ipnotizzare i lettori, condotti con una specie di premura da cicerone tra prime d’opera e ricevimenti in antichi manieri, celebri ristoranti e club esclusivi.
Ci sono narratori che distinguono molto il carattere e le condizioni dei propri personaggi, traendo il maggior partito possibile dai contrasti, quasi che volessero rappresentare una parte più vasta possibile dell’umanità. La condizione umana di Malraux, che è dello stesso anno di Pioggia di stelle, è un esempio insigne di questa tendenza a basare le trame sulle differenze e le complementarietà dei personaggi. Ghyka appartiene alla scuola opposta, e anche più che di Proust in questo sembra un allievo di Henry James. La gente di cui parla nel romanzo si assomiglia tanto che a volte, leggendo i dialoghi, ci si dimentica chi è che sta parlando, e bisogna tornare indietro per capire. Ma è uno scrupolo che distrugge l’effetto artistico, perché quelle di Ghyka sono autentiche conversazioni che avvengono in un cosmo umano che ha bisogno di essere indistinto quanto basta per essere veramente distinto. Non si tratta di conformismo, semmai della capacità di vedere lo stesso mondo, di apprezzare la stessa musica, di ammirare gli stessi romanzi e gli stessi servizi di porcellana cinese.
Il libro che più assomiglia a Pioggia di stelle, se ci si riflette bene sopra, non è la Recherche che pure vi è citata con venerazione, ma Il tramonto dell’Occidente di Spengler, non tanto per l’ideologia implicita, ma per il gusto del dettaglio rivelatore, la venerazione dei simboli, il potente e insieme disperato richiamo che il passato esercita sul vivente. I personaggi di Ghyka si assomigliano non in omaggio a uno spirito di casta, come nella versione deteriore dello snobismo, ma cercano i loro simili con le potenti antenne dell’istinto perché sentono gravare sulle loro spalle molteplici eredità (familiari, culturali, addirittura ancestrali) che si sentono troppo fragili per caricarsi da soli sulle loro spalle. E d’altra parte, sono organismi troppo delicati e complessi perché trovino un reale conforto alla loro solitudine nell’appartenenza a una «società» e meno che mai a una delle nazioni democratiche nate dal dissolvimento dell’impero asburgico.
La loro salvezza consiste nel riconoscersi e coltivarsi a vicenda, perché le realtà che si portano nel cuore non si dissolvano come neve al sole. Troppo intelligenti per opporsi attivamente al corso delle cose, e dunque tutt’altro che conservatori, sono gli ultimi eredi di una civiltà fondata sulla discriminazione del futile e dell’essenziale, sulla durata dei significati, sulla sostanza inalterabile delle forme. Oggi quell’Europa non sembra meno fantastica del mondo di Trono di spade. Ma lo stesso fatto che il romanzo di Ghyka rispunti fuori da una così lunga dimenticanza tornando a esercitare il suo fascino delicato e sorprendente, è un segno che quel passato, se non continua a vivere, continua almeno a morire splendidamente nei suoi romanzi.