La Lettura, 17 gennaio 2021
Massimo Popolizio parla della risata scorretta
«Per ridere bisogna essere persone serie». Massimo Popolizio misura le parole: è il suo mestiere, in fondo, in teatro, al cinema, alla radio, persino dentro i confini claustrofobici dello streaming, l’unico palcoscenico lasciato agli attori dall’emergenza Covid-19. È lecito farlo in tempo di pandemia? «Non può stabilirlo un giudice. Ridere si può, a patto di mantenere una certa leggerezza, che è un fatto fisiologico, uno stato di grazia, qualcosa da coltivare. Non è mai stupidità. Essere leggeri è il contrario di essere superficiali, vuole dire essere realisti. La leggerezza ha un suo peso, come insegna Calvino. Significa vivere e guardare con occhio diverso le cose».
Ci sta riuscendo in questo periodo così difficile?
«Personalmente trovo poco da ridere, non mi vengono spunti dalla pandemia. In generale, avendo conosciuto molti comici, ho notato che sono le persone più tristi del mondo. Dirò di più, essere tristi aiuta a far ridere. I comici difficilmente sono persone divertenti, hanno patologie, ossessioni, fisime; si nascondono. Conoscono il dolore. I pagliacci sono un’altra cosa».
L’abbiamo vista in camicia nera in «Sono tornato» di Luca Miniero, un Mussolini reduce da Piazzale Loreto che torna a Roma. Una commedia nera, nerissima, remake dell’originale tedesco che scherzava su Hitler. Non ci sono argomenti tabù, dunque?
«Un film pieno di ironia da cui è uscito un ritratto agghiacciante dell’Italia, molto realistico. Teatro e letteratura da sempre ci mostrano come su argomenti atroci si possa ridere. A cominciare dalla morte».
Un anno fa, proprio in questi giorni, lei e Valerio Magrelli faceste venir giù il Teatro Argentina con una serata dedicata ai sonetti del Belli. Per citarlo: «Eppoi se more! E ddoppo? Doppo viengheno li guai».
«Appunto. Il cinismo romano, il suo non prendere niente sul serio, fanno scrivere a Belli quei versi che ancora ci fanno ridere. Risate amare, su argomenti tragici. Centrale è la lingua. Quella del Belli è una lingua vera, questo ti aiuta a ridere, non solo il tema. Per dire, Porta non fa così ridere. Nel romano di Belli risuona il sottotesto di chi, a Roma, è abituato ai soprusi del Papa, non si stupisce di niente, ha già visto tutto. Ecco, quei sonetti sono un esempio perfetto della leggerezza che fa nascere la risata. Che però diventano deflagranti se recitati ad alta voce in un teatro esaurito».
Vuol dire che la risata, anche se amara, nasce nella condivisione?
«A noi gente di teatro – attori, registi, tecnici ma anche agli spettatori – è stato detto: chiudiamo tutto, guardate Netflix, la vita è bella lo stesso. Un discorso inaccettabile per chi frequenta palcoscenici, musei, concerti, cinema... Costringere ad accontentarsi di ciò che passa in tv o arriva via streaming ha tolto leggerezza e ossigeno. E ci ha tolto la possibilità di ridere. La risata, lo sappiamo, è contagiosa. È più difficile ridere da soli che piangere da soli. Siamo più fragili, in questi mesi mi capita più spesso di piangere. E provo fastidio verso chi ci vuole far ridere per forza. La risata è una cosa seria, non nasce a comando. Al contrario. Se vedi un film di Woody Allen ridi, non perché lui voglia farti ridere a tutti i costi, ma perché vuole metterti di fronte alle assurdità della vita. La realtà è piena di cose assurde, orribili. Pochi giorni fa abbiamo visto Capitol Hill assediata da un personaggio vestito da sciamano. Sembrava un film splatter americano di quarta categoria».
Non ama lo streaming ma non si sottrae: ha realizzato una produzione per il Teatro di Roma da « Centurie» di Manganelli. Bell’esempio di humour nero.
«Questi microgialli li hanno chiamati risate horror: parla di morti, fantasmi, abbandoni. È magnifico perché è umoristico, parola da noi abusata. L’humour è difficile da mettere su carta, Giorgio Manganelli è puro teatro dell’assurdo, ha migliaia di rimandi letterari esoterici, è una scrittura alta e accessibile».
Al cinema sembra preferire le commedie, possibilmente quelle virate sul nero. Come la più recente, «I predatori» di Pietro Castellitto.
«In teatro ho fatto 35 spettacoli con Luca Ronconi, uno che faceva battute cattivissime. Al cinema cerco le commedie, sono una salvezza per me. Ho una grande stima per gli attori comici: sono bravissimi, fare ridere è questione di ritmo e bravura, non puoi bluffare. Aldo, Giovanni e Giacomo; Ficarra e Picone; Claudio Bisio: sono geni dai quali imparare».
Il cinema di Dino Risi, Monicelli, Scola si fece beffe delle disgrazie...
«In maniera sublime, altro che correttezza politica... Il grandissimo, inarrivabile Alberto Sordi faceva personaggi che erano merdacce umane, senza vergogna. E così Ugo Tognazzi: ruoli di rara ferocia. Interpretavano, non facevano loro stessi. Oggi è cambiato il contesto. Si ha paura di passere per cattivi. Oggi a un attore non si chiede altro che di essere sé stesso. Tutti rincorrono la parola umanità, che è il contrario della recitazione. La prima cosa che insegno in Accademia è: immaginatevi di essere altro da voi. Guardare cosa c’è fuori è fondamentale. La risata s’è fatta più facile: basta dire una parolaccia e tutti ridono. Anche il pubblico è meno critico. Si ride sui social, domina l’esercizio dell’invidia, la cattiveria, una gara al ribasso».
Belli, Porta... Esiste una geografia dell’irriverenza?
«Mi sono sempre interrogato su questo. Non so dire perché, ma quelli che fanno ridere meno di tutti sono gli umbri. Il pugliese o il siciliano fanno più ridere del torinese. Così come il romano o il napoletano, che ha un modo filosofico per ogni aspetto della vita, anche il più doloroso. Forse sono le regioni che hanno una lingua. O forse ha a che fare con l’accettazione della tragedia e dei suoi aspetti ridicoli. Pensiamo a Goldoni. Ha sdoganato per primo i serial, è la soap di Beautiful allo stato puro: all’interno di situazioni domestiche, con perfidia, ci fa ridere delle nostre tragedie».
Vede nascere una drammaturgia sulla pandemia?
«Mi auguro di non vedere spettacoli di gente con le mascherine... siamo stati talmente sopraffatti. Credo che siamo troppo vicini. La realtà troppo vicina è meno efficace sul palcoscenico: solo attraverso la distanza puoi raccontare il presente. In Edipo c’è una pestilenza, può essere raccontata con gli occhi del Covid... Ecco, mi auguro che non si scelga la via più semplice. Per riportare gli spettatori a teatro, a ridere, piangere, emozionarsi, ci vorrà qualcosa che metta insieme molte cose. Non basterà uno spettacolo come tanti».