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 2021  gennaio 15 Venerdì calendario

In Italia, la seconda vita del rinoceronte bianco

Come savana, è molto padana: campi coltivatissimi, cascine, un vago ma tenace olezzo di quel che producono le mucche dopo aver mangiato tanta erba (e no, non è il latte). Anche i laboratori Avantea, visti da fuori, ricordano un’azienda agricola o un caseificio. Eppure è qui, appena fuori Cremona, nella grassa e piatta Bassa lombarda, che verrà salvato il rinoceronte bianco. Nella versione del Nord ne restano soltanto due, e l’operazione internazionale lanciata per impedire l’estinzione dell’ennesima specie in pericolo, anzi quasi estinta, è un esempio di globalizzazione magari bizzarra ma certamente «buona».Il rinoceronte bianco salvato a Cremona, chi l’avrebbe detto? È di ieri la lieta novella che, nonostante il Covid e i relativi rallentamenti, alla vigilia di Natale sono stati ottenuti due embrioni nuovi, che portano il totale a cinque e in alto le speranze di farcela.La storia è lunga ma non complicata. Il rinoceronte bianco non corre rischi nella sua versione del Sud: in Africa ce ne sono ancora circa ventimila esemplari. Quella del Nord invece ha avuto la sfortuna di vivere nel Sudan devastato dalla guerra e dall’anarchia, mentre sul mercato nero cinese un corno, accreditato di miracolose virtù afrodisiache, si vende anche a 30-40 mila dollari. E così di rinoceronti del Nord ne sono rimasti solo due, entrambe femmine, madre e figlia. Vivono in Kenya dove sono tornate dopo anni di cattività in uno zoo ceco, si chiamano Najin e Fatu e sono loro ad aver «donato», diciamo così, i loro ovociti. E qui entra in scena Cesare Galli, veterinario, titolare di Avantea e pioniere delle biotecnologie animali. È nei suoi laboratori che i preziosi ovociti delle rinocerontesse superstiti vengono fecondati con il seme congelato del maschio, anzi dei maschi Suni e Saut, nel frattempo scomparsi. Anche se poi ci si è accorti in corso d’opera che gli spermatozoi di Saut erano di qualità scadente, e così le speranze sono tutte riposte nelle doti riproduttive del fu Suni.Galli è anche andato in Kenya ad assistere all’operazione della raccolta degli ovociti, effettuata dai partner tedeschi del Leibnitz Institute. «Naturalmente, in anestesia totale – spiega Galli -. Un rinoceronte ha le dimensioni di un furgone, pesa circa 25 quintali, e bisogna agire per via rettale. Non è semplice» Gli ovociti conservati nell’azoto liquido a 22 gradi hanno quindi fatto il viaggio fino a Cremona. E qui la dottoressa Silvia Colleoni, un master in Biotecnologie, li ha materialmente fecondati con lo sperma di Suni, conservato in appositi contenitori refrigerati, tipo quelli del vaccino antiCovid. «È stata una grande emozione – racconta -. Intanto perché non puoi sbagliare e mandare all’aria il lavoro di decine di persone. Poi perché si tratta di salvare una specie che ormai è estinta. E infine perché l’incubatrice dove collochiamo gli ovociti fecondati è provvista di telecamera, quindi la vita la vedi proprio nascere».La strada però è ancora lunga. Racconta Galli che i primi dodici impianti di embrioni dei rinoceronti del Nord sulle madri surrogate del Sud (Najin e Fatu non possono più figliare) non hanno prodotto nemmeno una gravidanza. «Quindi stiamo producendo anche degli embrioni dei rinoceronti del Sud per studiare la tecnica. Ma resto ottimista: credo che se va bene fra tre anni o al massimo fra cinque avremo un cucciolo». Del resto, Galli agli esperimenti è abituato. Nel gennaio del ’99, tre anni dopo la pecora Dolly, clonò il primo toro, battezzato Galileo in onore alla scienza: «Lo portai alla Fiera di Cremona dove ci arrestarono entrambi, lui ed io, perché nel frattempo l’allora ministra Rosy Bindi aveva emanato un decreto che vietava sia la clonazione umana che quella animale». E come finì? «In niente. Io restai al commissariato una giornata, Galileo un paio di mesi». Nel 2003, Galli, recidivo, clonò il primo cavallo, anzi cavalla: Prometea. «Ma la differenza fu che il ministro successivo, che era Sirchia, mi fece i complimenti».In effetti qualche questione etica è legittimo porsela. Anzi, porla alla professoressa Barbara De Mori, che insegna Bioetica animale all’Università di Padova, incaricata della valutazione etica del progetto dai governi tedesco e keniano. L’obiezione, in effetti, sorge spontanea: se la natura ha voluto che una specie si estinguesse, che diritto abbiamo noi di impedirlo? «Ma qui la natura c’entra nulla – spiega De Morì -. Se il rinoceronte bianco del Nord si è estinto la colpa è tutta nostra, delle guerre, della distruzione dell’habitat e del traffico delle corna. L’uomo deve riparare ai danni che egli stesso ha causato, impedire la perdita irreparabile di una specie animale e vegliare che, per farlo, non venga leso il benessere degli animali coinvolti». Insomma, l’impresa è abbastanza importante da meritare gli sforzi congiunti delle molte istituzioni internazionali che partecipano. A proposito, professoressa: se dovesse scegliere il nome del baby Rino che, speriamo, un giorno nascerà? «Nessun dubbio: Hope. Come speranza»