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 2021  gennaio 15 Venerdì calendario

I nativi americani, decimati del Covid, temono di perdere l’identità

Di coronavirus si muore di più fra le tribù dei nativi americani che fra i bianchi negli Stati Uniti, con un tasso di mortalità di 3,5 volte superiore, secondo i dati forniti dal Cdc (Center for Disease Control and Prevention). E, come nel resto del mondo, il Covid-19 miete più vittime fra gli anziani, portandosi via vite umane, affetti familiari, ma nel caso delle tribù indiane erodendo, vittima dopo vittima, anche la loro identità. Il ruolo degli anziani è sacro: detentori del sapere, della storia, delle tradizioni, della lingua, sono considerati protettori e rispettati come tali. «Il Covid non rappresenta solo una minaccia alla salute e al welfare ma all’identità culturale della Nazione Cherokee», ci spiega Principal Chief Chuck Hoskin Jr., capo del governo Cherokee, che ci racconta però una storia in controtendenza rispetto alla gestione della pandemia nel resto del Paese (l’altro ieri 224.258 nuovi casi e 3.848 morti) e all’alto tasso di mortalità registrato in altre tribù (in totale 574 riconosciute federalmente).
La Nazione Cherokee è la più popolosa con i suoi 38mila cittadini, la maggior parte dei quali vive nell’area nord-orientale dell’Oklahoma. Fino ad oggi, i positivi al Covid-19, qui, sono in totale 12.500, e i morti 71: un numero piuttosto contenuto se confrontato con i dati del resto del Paese: «A marzo, all’inizio della pandemia ho chiesto che fosse una priorità l’uso della mascherina. Crediamo nella scienza, nei fatti e nella compassione quando prendiamo le decisioni», dice. «In assenza di linee guida da parte del Cdc, abbiamo pianificato rapidamente una risposta al virus, realizzando un sistema di test, tracciamento e isolamento molto efficace. Abbiamo offerto subito gratuitamente la possibilità di fare il tampone in macchina, abbiamo assistito i più vulnerabili, soprattutto gli anziani, distribuendo cibo, più di 114mila pasti, e dato informazioni in inglese e in lingua Cherokee». Poi, hanno persino cominciato a produrre mascherine loro stessi, riuscendo ad aiutare anche il personale sanitario non Cherokee nel resto dell’Oklahoma e nella Nazione Navajo. «Investiamo la maggior parte delle nostre risorse nel settore sanitario, in quelli dell’istruzione, del lavoro e della conservazione della nostra cultura», continua Chief Hoskin,
ammettendo che un risultato del genere è stato possibile grazie al Cherokee Nation Health Service, il sistema sanitario che è un’eccellenza di questa Nazione. «Non ci siamo fatti trovare impreparati. Abbiamo fatto un buon lavoro, credo migliore di ogni altro Stato», afferma con soddisfazione. Di loro dice: «Siamo un popolo resiliente. La nostra storia è piena di momenti bui, dall’oppressione che i nostri antenati hanno subito a causa dei coloni, all’Indian Removal Act che ci ha privato della nostra terra natia (in origine erano stanziati nei territori dell’attuale Georgia), al Trail of Tears (la marcia delle lacrime, che li ha portati fino all’Oklahoma), in cui un quarto della nostra popolazione è morta di stenti e fatica. Ma abbiamo ricostruito, e oggi siamo un’importante forza di progresso in questo Stato». Il suo unico rammarico è non parlare la lingua Cherokee: «Quando hai una tribù di 38mila persone in cui solo 2mila parlano fluentemente la lingua, è già segno di qualcosa di irreparabile: hai perso storia, cultura, un tesoro nazionale». Che va tutelato in ogni modo.
Delle 71 vittime, una trentina conoscevano perfettamente la lingua. Non c’è da sorprendersi quindi se nella fase 1 delle vaccinazioni, insieme agli operatori sanitari e i maggiori di 65 anni, chi parla Cherokee ha la precedenza. Chief Chuck Hoskin Jr. ci dice che da metà dicembre «più di 4.500 cittadini sono stati vaccinati, inclusi circa mille madrelingua». Poi aggiunge: «Se oggi sopravvivi e trasferisci il tuo sapere a quelli dopo di te, è molto probabile che nelle prossime due generazioni ci sarà ancora qualcuno che parlerà Cherokee».