Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 14 Giovedì calendario

Sul ritorno di "Sex and the city"

Per i maschi non so, ma per le femmine c’è un momento, in genere tra i trentacinque e i (per le più tarde) quarant’anni, in cui inizi a trovare insopportabile molto di ciò che fino a quel momento t’aveva intrattenuto.
Sex and the city. Come eravamo. Le rievocazioni di Piccole donne. Quelle che dicono che da piccole volevano essere Jo March. I discorsi sulle diete. I tormenti per gli ex.
Se Simone de Beauvoir fosse cresciuta in anni in cui la cultura popolare aveva un repertorio così preciso, avrebbe convenuto che quello in cui smetti d’identificarti in Katie Morosky, così inadatta al biondino di buona famiglia e così modello comportamentale per la te ribelle, quando smetti di trovarla grandiosa e inizi a trovarla una cafona, quello è il momento in cui diventi donna (giacché, diceva Simone, lo si diventa, non lo si nasce, ma questo non si può più dire senza sembrare della corrente vanverista che definisce il genere sessuale «un costrutto sociale»).
Ci ripensavo vedendo un documentario della Bbc per i vent’anni di Bridget Jones (il film; il libro è persino più vecchio, se ce l’avete in edizione rilegata consideratevi pure decrepite).
Diversamente da Piccole donne (illeggibile per chiunque abbia superato i dodici anni), Bridget Jones è invecchiato benissimo, e benché la protagonista abbia ossessioni impresentabili per un’adulta lo si legge volentieri anche da grandi. È perché Helen Fielding ha quel talento dei romanzieri inglesi nel ridicolizzare le nostre fissazioni e farci scoprire che non sono solo nostre: le canzonette di Nick Hornby, gli acquisti di Sophie Kinsella, la maternità di Allison Pearson (il cui Ma come fa a far tutto? diede la stura al vero tema del secolo: mamme che si lamentano, dai romanzi a Facebook alle petizioni; è il secolo convinto che la maternità sia un cataclisma, mica una roba che, come le canzonette di Nick e la dieta di Helen, càpita quasi a tutti).
Ma tutto questo è irrilevante giacché la tv è immagine, e quindi del documentario su Bridget Jones resta nelle iridi una sola cosa: gli uomini (Colin Firth e Hugh Grant) che vengono intervistati vent’anni dopo il film sono, rispetto alle immagini del film, i nonni di loro stessi (i padri sarebbe temporalmente normale, ma no: i nonni); le donne sono un disastro di chirurgia plastica.
Sotto ognuna delle moltissime conversazioni social su The Undoing – la serie di Sky Atlantic che la platea italiana disprezza in pubblico e divora in privato – c’è sempre qualcuno che a un certo punto dice: eh ma Nicole Kidman, rovinata dalla chirurgia plastica; e qualcuno (a volte addirittura la stessa persona) che dice: eh ma Hugh Grant, troppo invecchiato. Se sei ben tenuta ti tirano le pietre, se sei mal tenuto ti tirano le pietre.
L’annuncio d’una nuova stagione di Sex and the city è stato accolto da sospirosi «ma sono tre vecchie» (la quarta, la più vecchia delle vecchie, ha rifiutato di prendere parte alle esequie da vive). Non: ma siamo vecchie noi, cosa mai ce ne potrà fregare delle beghe sentimentali di donne che ancora non hanno scoperto la comodità dei pantaloni con l’elastico. Non: che abissale tristezza, il marchio più riconoscibile degli ultimi venticinque anni non ha prodotto, per le sue attrici, carriere abbastanza solide da permetter loro di risparmiarsi i revival.
No. Quello che ci turba, delle trentenni che guardavamo essere sceme con la bramosia che si riserva all’intrattenimento riuscito, non è che siano rimaste sceme e che l’intrattenimento rischi di non essere altrettanto riuscito: è che ci tocchi guardarle ultracinquantenni. Che, se ci immedesimavamo allora, ora ci tocchi pensare che son proprio io, quella vecchia: lo specchio ha la mia faccia.
La vecchiaia ci terrorizza per come accade fuori dalle eccezioni. Da quelle che restano splendori anche da vecchie (Jane Birkin) o da quelli che più si sfasciano più sono fighi (Jack Nicholson). La vecchiaia è il principio di realtà cui non riusciamo ad abituarci. Non vogliamo una plastica che si veda, anche poco (io, non fosse per tutte le saperlalunghiste del rifacimento facciale, non penserei mai che la Kidman fosse un prodotto chirurgico, penserei solo fosse biologicamente assai più fortunata di me). Non vogliamo un’età che si veda, anche in modo donante (nel film di vent’anni fa, gli allora quarantenni Firth e Grant sono implumi; molto meglio adesso, con lo sfascio del tempo in faccia, ma no: sospiriamo che, santo cielo, sono invecchiati).
Mi pare fosse sempre un romanziere inglese, che raccontava quella storia del ritratto che invecchia in soffitta. Già centotrent’anni fa – prima del botulino, della chirurgia, dei microfiller, dell’infantilizzazione degli adulti che rende intollerabile il loro avere facce da vecchi – Oscar Wilde aveva capito che l’incubo massimo è avere in faccia i segni del tempo. Diceva Nora Ephron che l’alternativa a invecchiare è morire, ma evidentemente è la sua intuizione che meno abbiamo introiettato: ci sembra ancora una tragedia.
Siamo così terrorizzate dall’invecchiare che ci scegliamo eroine che sono impensabili dopo i trent’anni: da Jo March a Carrie Bradshaw, non c’è nelle nostre opere di formazione un personaggio del quale pensare che sarà diventata un’adulta potabile. Considerato che le più interessanti attrici contemporanee, da Jane Fonda a Helen Mirren, hanno l’età per interpretare le nonne, forse è ora di pensare a personaggi adulti. Per film che non guarderanno le adulte che su Facebook postano entusiaste articoli che promettono di spiegarci cosa significa se un ex mette like al tuo status, ma magari le altre sì. Quelle che, oltre a invecchiare, sono cresciute.