Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 14 Giovedì calendario

I 45 anni di Repubblica dietro le quinte

«Sto uscendo da casa di Eugenio. Ti aspettadomanipomeriggio per l’intervista». Appena insediato alla guida di Repubblica, Maurizio Molinari s’era accorto che non avevamo una testimonianza filmata di Scalfari sulle origini del quotidiano, sulla scintilla da cui era scaturita la più importante impresa giornalistica della seconda metà del Novecento. E in vista dell’anniversario – i 45 anni dalla nascita, il 14 gennaio del 1976 – non potevamo rinunciare alla voce più importante.
Il fondatore mi aspettava nella sua casa dietro piazza della Minerva, affacciata per tutto il perimetro sulle cupole barocche. In quelle stanze sono passati ministri, governatori della Banca d’Italia, un pezzo importante dell’élite culturale del Paese ma negli arredi non c’è niente di formale o di esibito, solo un’eleganza accogliente, riscaldata dai dettagli curati dalla moglie Serena. I bagliori colorati delle lampade Liberty, in salone la violinista di Matisse e, nello studio al piano di sopra, un grande biliardo sovrastato da colonnine di libri, forse perché non c’è conoscenza senza una dose di azzardo. Scalfari è seduto su una poltroncina di pelle rossa, affettuoso come sempre, indosso una maglia girocollo portata senza camicia, come pochissimi “vegliardi” possono permettersi (“vegliardo” è una parola che gli piace molto).
«Hai letto quella pagina di Proust con il dialogo tra la signora a passeggio e il cavaliere sorpreso dietro l’angolo?». Non avevo la più pallida idea, ma capivo che bisognava aspettare la fine del racconto. E la sostanza del discorso era questa: sarò io a decidere cosa ricordare e cosa dimenticare. Quando vuoi cominciamo, ma il “bastone del maresciallo” resta sempre a me. Non potevo esserne sorpresa: quando mai Scalfari non aveva tenuto il timone in mano? Avviandosi ai 97 anni non pensava certo di cambiare abitudini radicate. Per svariate settimane siamo andati da lui con Sonny Anzellotti, il videomaker che ha curato le riprese. A volte l’abbiamo trovato seduto al pianoforte dove ancora si diverte a suonare qualche nota di jazz. Con Sonny e con Francesco Fasiolo, caporedattore di Gedi Visual, abbiamo subito convenuto che la telecamera avrebbe dovuto inquadrare solo il fondatore, fuori dal campo noi che gli stavamo intorno, Serena e la figlia Donata. Bisognava far parlare la sua gestualità, le risate contagiose, e quello sguardo che per svariati decenni ha conquistato le coscienze dei più bei nomi del giornalismo italiano. La definizione di “possessore d’anime” appartiene a Scalfari, riferita ai direttori musicali con i quali confessa di nutrire una forte vicinanza. E quando mima Toscanini e accenna al motivo della Bohème, si capisce bene cosa c’entri Repubblica con le prove d’orchestra.
Man mano che andavamo avanti nel girato, realizzavamo che dietro l’imprenditore di cultura, dietro l’inventore di una “scuola morale” e di un “nuovo stile giornalistico”, c’era un uomo capace del sentimento più raro e invidiabile che è l’allegria. L’allegria del fare e delle opere. Sia che parli della creatività del potere o del suo desiderio d’amore o della vocazione a stare al vertice di qualsiasi triangolazione possibile, umana e professionale, al fondo agisce sempre una vitalità a cui potevano dar voce solo le percussioni e i fiati di Benny Goodman. Energia pura. Anche il montaggio, attentamente curato da Alberto Mascia, avrebbe dovuto rispettare il ritmo di quella coraggiosa intrapresa che con l’ Espresso, a metà degli anni Cinquanta, portò scompiglio nella grande bonaccia della stampa italiana. Era necessaria però una voce narrante, per tenere insieme i tanti fili che affioravano talvolta senza un ordine prestabilito. Per costruire l’intelaiatura non servivano altro che i suoi libri, avendo Scalfari scritto molto di sé e dei suoi giornali. La scelta è caduta su Fabrizio Gifuni, un grande attore provvisto di sensibilità civile. Con la generosità degli artisti veri, Gifuni ha accolto subito la proposta, riuscendo nel miracolo a cui ci ha già abituati dando vita a Basaglia, Gadda, Pasolini: nello studio di registrazione all’improvviso s’è materializzata la voce del fondatore, la stanchezza del corpo ma non della mente, e a volte nel passaggio dall’uno all’altro si fa fatica a distinguere Scalfari dal suo interprete.
A proposito di voci. Una è arrivata direttamente dal 1976, l’anno della fondazione. L’audiocassetta porta la scritta: “La prima riunione di Repubblica”. Con Fausta Mattei, custode dell’archivio insieme a Stella Somma, nel riavvolgerla abbiamo avuto il terrore di spezzare il nastrino della memoria (chi non è più giovanissimo ricorda la matassa da sbrogliare con la matita infilata dentro l’ingranaggio). Dal registratore è venuta fuori una voce diversa da quella più matura, ma l’incipit è inconfonbilmente scalfariano: «La prima riunione è come quando si fa l’amore la prima volta». È il primo bilancio di Repubblica, fatto con tutta la redazione a cinque mesi dalla nascita. «C’è un peso politico e c’è un peso culturale: il successo economico arriverà».
II successo sarebbe arrivato dopo qualche anno, e più avanti la nave corsara sarebbe diventata l’ammiraglia dell’informazione italiana. Qui ci soccorre una videocassetta che conserva tutta la freschezza dei vecchi filmini di famiglia conservati in soffitta: riprese tremolanti, una marea di nuche che appartengono al meglio del giornalismo italiano, ed è tutto terribilmente vero, le lacrime, gli sguardi emozionati, e un discorso che è anche un documento storico su cosa abbia rappresentato la nascita di Repubblica nella storia politica e culturale italiana. Tutti piangono perché Scalfari sta lasciando la direzione del giornale. È il 2 maggio del 1996. Alla sua destra Carlo Caracciolo, compagno fin da principio dell’avventura editoriale, gli sussurra “coraggio”. È l’unico capace di contenerne l’innata vocazione a occupare “il vertice del triangolo” perché «con Carlo non c’erano più geometrie verticali, eravamo come fratelli, entrambi comandanti di un’unica torpediniera». Nella cerimonia degli addii Scalfari non può piangere, lo sa e si trattiene. E dice che «è peggio d’un calcio negli stinchi» quando si sente dire che dopo di lui Repubblica muore. Da costruttore del vascello corsaro ha una sola ambizione: vederlo ripartire con un nuovo timoniere, misurarne la robustezza degli alberi e la forza delle vele. Dopo altri venticinque anni siamo ancora qui a ringraziarlo.
Ora non rimane che ascoltare il fondatore nel docufilm Repubblica primo sogno, da oggi accessibile sul sito di Repubblica.
Un’ultima cosa. Insieme ai tamburi di Goodman, la colonna sonora è affidata alla tromba di Louis Armstrong. Il brano scelto è In the Mood for Love. Cos’altro, se no?