la Repubblica, 14 gennaio 2021
Vivere in un gulag cinese
La testimonianza di un’ex detenuta uigura nei campi dello Xinjiang di Gulbahar Haitiwaji Di seguito pubblichiamo un estratto del libro “Rescapée du goulag chinois” (“Sopravvissuta al gulag cinese”) dell’uigura Gulbahar Haitiwaji, scritto assieme alla giornalista Rozenn Morgat, che esce oggi in Francia per la casa editrice Éditions des Équateurs
Baijiantan, 10 giugno 2017 «Destra! Sinistra! Riposo!». Siamo una quarantina di donne in tuta blu nella stanza. È un’aula scolastica rettangolare e anonima, misurerà al massimo 50 metri quadri. Un grande tendone di metallo con tanti piccoli buchi che lasciano passare dei raggi di luce dissimula la vita all’esterno. Per undici ore al giorno, il mondo si riduce a questa stanza. Le pantofole scricchiolano sul linoleum mentre due militari di etnia han continuano a battere il tempo. Seguiamo un «addestramento fisico». In realtà, è una vera e propria formazione militare. Sentiamo il nostro alito fetido. Ansimiamo come buoi privati di ossigeno. A volte qualcuna sviene. Se una prigioniera resta a terra priva di sensi, uno dei sorveglianti viene a farla rialzare con un paio di schiaffi. Se crolla di nuovo, le fa lasciare la stanza e non la rivediamo più. Mai più. All’inizio questa cosa mi ha sconvolto. Ormai mi sono abituata. Ci si abitua a tutto, perfino all’orrore. Baijiantan è un immenso labirinto in cui ci spostiamo per gruppi, scortate da guardie. Per raggiungere le docce, l’aula o la mensa, imbocchiamo una serie di corridoi interminabili rischiarati da luci al neon. Impossibile avere il minimo momento di intimità.Nel giro di qualche giorno, ho capito il senso dell’espressione “lavaggio del cervello”. Tutte le mattine un’insegnante uigura entra nell’aula, mentre noi rimaniamo in silenzio. Una donna della nostra stessa etnia ci insegna a diventare cinesi! Ci tratta come delle cittadine refrattarie che il partito deve rieducare. Al suo segnale, ci alziamo come una sola donna. Lao shi hao ! Il saluto apre le undici ore di insegnamento. Recitiamo una sorta di professione di fede verso la Cina: «Grazie al nostro grande Paese. Grazie al nostro partito. Grazie al nostro caro presidente Xi Jinping». Una versione analoga conclude la lezione, la sera: «Che il mio grande Paese si sviluppi e abbia un grande futuro. Che tutte le etnie formino un’unica e grande nazione. Che il presidente goda di buona salute. Lunga vita al presidente». Inchiodate sulle nostre sedie, ripetiamo come pappagalli. *** Karamay, 2 aprile 2019 Se un giorno riuscirò a uscire da qui, a ritrovare la mia vita tranquilla a Boulogne, bisognerà che racconti quello che ho vissuto qui nello Xinjiang, nel gulag cinese. Tutto questo è mostruoso da raccontare e da ascoltare. Ma bisognerà farlo. Come dire loro che ho vissuto alla mercè di poliziotti violenti, di uiguri come me che sfruttando lo status che conferiva loro l’uniforme potevano disporre dei nostri esseri come meglio credevano? Uomini e donne a cui era stato fatto il lavaggio del cervello, robot sprovvisti d’umanità che eseguono gli ordini con lo zelo di piccoli funzionari alienati dalla gerarchia di un sistema dove chi non denuncia sarà denunciato, chi non punisce sarà punito. Convinti che fossimo dei nemici da abbattere, traditori, terroristi, ci hanno privati della libertà. Come animali, ci hanno ammassati in luoghi fuori dal mondo, dal tempo: i campi. La vita e la morte non hanno lo stesso significato nei campi. Quando una mano ha passato violentemente un rasoio sul mio cranio, e altre mani mi hanno strappato le ciocche che cadevano sulle mie spalle, ho chiuso gli occhi offuscati dalle lacrime, pensando che fosse venuta la mia ora. La morte girava ovunque. Quando delle infermiere mi hanno preso il braccio per “vaccinarmi”, ho pensato che mi stessero avvelenando. In realtà, ci stavano sterilizzando. È lì che ho compreso il metodo dei campi, la strategia, non per ucciderci freddamente, ma per farci scomparire lentamente. Così lentamente che nessuno se ne accorgerà.
Ci hanno chiesto di rinnegare quello che eravamo. Quelle come me, che escono, non sanno più chi sono. Siamo delle ombre, anime morte. Mi hanno fatto credere che i miei erano dei terroristi. Ero così lontana, così sola, così spossata e alienata che ho quasi finito per crederci. Kerim, marito mio, Gulhumar, Gulnigar, figlie mie, ho denunciato i vostri “crimini”. Ho chiesto perdono al Partito comunista per atti atroci che né voi né io abbiamo mai commesso. Rimpiango tutto quello che ho detto e che vi ha infangato. Oggi sono viva e voglio gridare la verità. Non so se voi mi riconoscerete, non so se voi mi perdonerete.
— Traduzione di Fabio Galimberti