Corriere della Sera, 14 gennaio 2021
Uganda, l’elefante e il rapper in lizza per le presidenziali
Anche in Uganda Facebook ha spento alcuni account del presidente per contenuti inappropriati. Il presidente allora che cosa ha fatto? Ha spento Facebook e gli altri social. Così anche gli altri undici candidati non avranno seguito online (senza poter contare come lui sui media di Stato). Kampala non è Washington, ma i paragoni non sono del tutto fuori luogo: anche nel cuore dell’Africa c’è un leader che mai accetterebbe la sconfitta alle urne. Yoweri Museveni ha un paio di anni più di Trump e vuole restare al potere, cosa che gli è sempre riuscita fin dal lontano 1986 (quando alla Casa Bianca sedeva Ronald Reagan).
Anche questa ultima campagna per l’elefante di Kampala sarebbe stata una passeggiata nella foresta, se non si fosse messo di traverso il basco rosso e improbabile di un cantante outsider chiamato Bobi Wine, che ha la metà dei suoi anni e ai ragazzi (soprattutto di città) la canta meglio del vecchio guerrigliero con il vezzo dei cappelli da safari. Quando la demografia fa rima con democrazia. L’Uganda è il secondo Paese più giovane del mondo (dopo il Niger): l’80% dei 43 milioni di abitanti ha meno di 30 anni. L’età media non arriva a 16. Con un tasso ufficiale di disoccupazione al 13,3%, tra i più alti del continente. Ma, dalla sua, l’eterno presidente ha un sistema oliato e compatto, senza veri rivali interni, una moglie che manovra nei gangli del governo, un figlio discreto a capo dei servizi segreti. E a proposito di questioni anagrafiche, per raggiungere il sesto mandato Museveni nel 2017 aveva fatto togliere dalla Costituzione il limite dell’età per un candidato presidenziale fissata a 75 anni. Un viatico per l’ex ribelle diventato campione di stabilità e accoglienza (il suo Paese ospita 2 milioni di profughi scappati dalle guerre del circondario), il solido alleato dell’Occidente nel cuore sempre un po’ limaccioso dell’Africa nonché mister salute pubblica, lodato per la lotta all’Aids e ora anche per il contenimento della pandemia.
Eppure, se questa campagna viene ricordata come la più violenta che l’Uganda abbia conosciuto a memoria di ragazzo, con 50 o forse cento manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine negli scorsi mesi, vuole dire che il cantante e il suo pubblico di giovani impazienti hanno fatto davvero paura al governo dell’elefante. Wine ha tenuto il conto: «Negli ultimi 69 giorni – ha detto al Financial Times il trentottenne deputato che gira con casco e giubbotto anti-proiettile – sono stato fermato quasi ogni giorno, e arrestato 11 volte. In quattro circostanze mi hanno sparato addosso».
Un record che forse vale quanto un programma (Wine promette posti di lavoro e trasparenza, come fanno i candidati in ogni parte del mondo). Basterebbe questo per schierarsi dalla parte del cosiddetto «presidente del ghetto» cresciuto in uno slum di Kampala? Sembrava che Biden avesse dato il suo sostegno al cantante che mischia rap e reggae. Ma si trattava di un tweet farlocco, e l’entourage di Joe ha smentito pubblicamente. Ci mancherebbe. Da un lato dell’Atlantico si può esigere l’impeachment di un presidente per istigazione alla violenza, e poi restare equidistanti nelle dispute di un Paese africano che usa la polizia per silenziare l’opposizione provocando decine di morti. I ministri di Kampala, e lo stesso Museveni in un’intervista televisiva l’altra sera, hanno parlato di «morti inutili». Attenzione alle parole. Sotto la pietà governativa, si nasconde il disprezzo. «Inutili»: non nel senso che quelle vittime potevano essere evitate se esercito e polizia non fossero intervenuti con durezza. «Inutili» perché non cambieranno la situazione, perché tanto vincerà sappiamo chi.
L’Unione europea non manderà oggi ai seggi i suoi osservatori perché in passato si sono rivelati «inutili» agli occhi del governo ugandese che non ha ascoltato i loro rilievi. Gli osservatori americani sono stati bocciati dalle autorità al 75%, e dunque l’ambasciata Usa ritira tutta la delegazione. Il mondo preferisce non guardare da vicino ciò che avviene nel Paese dei più giovani. Che quei manifestanti non siano «morti inutilmente» seguendo un rapper o la democrazia dipende anche da Joe Biden. E da noi.