La Stampa, 13 gennaio 2021
I social e la lista dei buoni e dei cattivi
Temo ci sia un equivoco: non sono sicurissimo che tutti quelli perplessi dalla decisione di Twitter e di Facebook di bandire Donald J. Trump stiano vivendo una vampata di trumpismo. Alcuni di loro, fra cui mi ci metto e, se ho capito, va messa anche Angela Merkel, non stanno parlando di censura né di libertà d’espressione, tantomeno stanno concentrando l’attenzione su un fatto per trascurare il fattaccio, cioè il cavernicolo e sovversivo assalto al Parlamento di Washington, che sarà giudicato secondo le non clementissime leggi americane. Il problema è l’assenza di leggi che regolamentino l’accesso e la permanenza di ognuno di noi sui social network, così se ne attribuiscono la facoltà i proprietari, svincolati dall’obbligo di concedere una difesa e di motivare le condanne. Gli è permesso perché Twitter e Facebook non sono luoghi pubblici, e fin qui ci siamo. Ma non sono nemmeno luoghi privati: privato è il mio giardino o il tuo salotto. Potrebbero, al limite, essere luoghi privati aperti al pubblico, come i bar o le palestre, ma non è convincente, i bar e le palestre sono frequentati da qualche decina di persone per scopi precisi. I social sono percorsi da miliardi di esseri umani che lì dentro fanno politica, informazione, intrattenimento, pubblicità, arte, impresa, sono spazi completamente nuovi (ormai mica tanto), imparagonabili ad altri e impossibili da incasellare nelle categorie del Novecento. Servirebbero nuove definizioni e nuove regole, transnazionali e condivise, semplicemente per evitare che sia un consiglio d’amministrazione a dividere, a suo capriccio, i buoni e i cattivi del mondo.