la Repubblica, 13 gennaio 2021
Intervista a Viet Thanh Nguyen
Non ho dubbi, Twitter, Facebook e gli altri social sono ormai strumenti estremamente influenti: dobbiamo temerne lo strapotere e regolamentarli. Ma non mi ha affatto turbato la loro scelta di “spegnere” gli account di Donald Trump: sono società private, hanno le loro regole. Avrebbero dovuto semmai applicarle prima e non aspettare la sconfitta elettorale del presidente, per ricordarsene». Viet Thanh Nguyen, 49 anni, è lo scrittore di origini vietnamite premiato col Pulitzer nel 2016 per il suo romanzo Il Simpatizzante : spy story dove affrontava il complesso tema delle conseguenze della guerra del Vietnam, ambientandola nella comunità dei profughi trapiantati in America. La stessa dove anche lui è cresciuto: approdato in America nel 1975, quando i suoi genitori nordvietnamiti, inizialmente riparatisi nel Sud del paese, riuscirono a fuggire dopo la caduta di Saigon. Il suo nuovo libro, Il Militante, è stato appena edito in America ed arriverà a marzo in Italia, pubblicato da Neri Pozza.In America la scelta di silenziare Trump è stata bollata dai conservatori come un ennesimo esempio di “cultura della cancellazione”. E pure in Europa si sollevano dubbi sull’azione dei social, sostenendo che a decidere su eventuali restrizioni alla libertà di espressione dovrebbero essere i legislatori, non le società private...«I conservatori continuano a usare lo spauracchio della “cultura della cancellazione” per difendere un linguaggio fatto di soprusi, violenze o palesi falsità: come le assurde teorie secondo cui le elezioni americane sono state truccate. Ma la libertà d’espressione non è senza condizioni. Non consiste nel dire qualsiasi cosa senza pagarne mai le conseguenze. Ci sono limiti: tanto più quando si mette a rischio la vita degli altri: com’è avvenuto con l’assalto a Capitol Hill, incitato dal presidente.Intervenire era necessario e Trump, d’altronde, ha ancora la possibilità di dire la sua in eventi pubblici come quello di ieri ad Alamo o nelle tv che vogliono ospitarlo. È vero, servono regole: ben vengano. Ma bisogna contestualizzare il dibattito nella realtà di questi ultimi quattro anni americani. Serve una riflessione profonda su cosa è successo e come siamo arrivati fin qui».Prego.«Donald Trump è un sintomo della profonda divisione del paese e allo stesso tempo anche la causa.L’America è sempre stata divisa fra due pulsioni: le aspirazioni democratiche e multiculturali dei suoi padri fondatori, l’idea di una società dove tutti sono uguali e benvenuti, in un certo senso incarnata in Barack Obama. Ma ha anche fondamenta in una storia terribile, fatta di soprusi, conquiste, genocidio, schiavitù. Il 6 gennaio abbiamo assistito proprio al fronteggiarsi di quelle due Americhe: dopo la vittoria di un senatore ebreo e di un senatore afroamericano nello stato conservatore delle Georgia, a Washington c’è stato un tentativo di colpo di stato ad opera di nazionalisti bianchi, in buona parte. Ma non solo, dato che con mio grande rammarico, ho visto fra la folla pure la bandiera sudvietnamita, insieme a quelle di altri paesi: chiaro segno di quanto Trump sappia far leva sui sovranismi. Ebbene, la polizia avrebbe potuto fermare l’attacco. Ma ha sottovalutato il pericolo. Non lo ha riconosciuto: nessuno ha pensato di poter temere da una folla bianca quello che finora hanno temuto da Black Lives Matter ogni volta che gli afroamericani sono scesi in piazza.Ecco, con i tweet di Donald Trump, è successo qualcosa di simile».E ora, cosa dobbiamo temere?«Il movimento ispirato e sostenuto da The Donald continuerà a sopravvivergli, poiché ha radici profonde nel nazionalismo bianco.Trump ha aggravato le divisioni del Paese perché con la sua retorica ha pescato nel peggior passato. Anche con l’idea di “legge e ordine” da lui così fortemente sostenuta, con la quale ha illuso la massa di suoi seguaci che l’America – dove i bianchi dominavano sopraffacendo i neri, le minoranze, le donne – fosse un paese ordinato. Trump ha di fatto negato le radici storiche dell’America, la violenza e il disordine su cui la Nazione si fonda.Che poi è lo stesso motivo per cui ha attaccato con veemenza perfino quei testi scolastici dove si spiegava in cosa consistesse il “privilegio bianco”. Dobbiamo temere, ovunque, le pulsioni astoriche dei nazionalisti che rivendicano l’idea di un paese e di un passato mai esistiti».Oggi si vota per avviare una seconda procedura di impeachment nei confronti del presidente. Le sembra necessario?«Il rischio di fallire è alto. Ma è importante cercare di impedire con ogni mezzo a Trump di avere un futuro politico e fare così altri danni.Il timore di molti americani, a prescindere dalla loro ideologia, è che nessuno paga più le conseguenze dei propri atti politici. Ritengo dunque essenziale dimostrare che la giustizia persegue tutti. Anche l’uomo più potente del mondo».Fra una settimana entrerà alla Casa Bianca un nuovo presidente...«Biden ha promesso che lavorerà per riconciliare il paese e si sta già muovendo in quella direzione. Gli uomini e le donne da lui scelti per formare il governo sono figure eccellenti. Anche se, ne sono certo, prenderà una direzione moderata che alla fine non soddisferà nessuno.Spero scelga a modello Lyndon Johnson più che Barack Obama. Un presidente, cioè, che lavorò per rinforzare le politiche d’uguaglianza nel paese imponendo cambiamenti straordinari sul piano delle leggi razziali e dell’immigrazione».Cosa si augura che faccia, Biden, in tal senso?«Spero che rialzi il tetto degli accessi concessi ai rifugiati riportandolo almeno ai livelli della presidenza Obama: Trump lo ha ridotto ad un numero ridicolo, appena 18mila persone. Spero, poi, che riapra gli accessi al lavoratori stranieri esperti di cui l’America ha straordinario bisogno. E metta mano pure alle politiche di riunificazione delle famiglie degli immigrati, limitate, anche queste, da Trump: per impedire alle comunità straniere di radicarsi e crescere. Gli immigrati sono sempre stati il motore evolutivo di questo paese e riaprire al sogno americano è il miglior modo per porre fine ai nazionalismi».