il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2021
I 300 aforismi del gesuita seicentesco Gracián
Tre indizi fanno una prova e “tre cose fanno un prodigio: ingegno fecondo, giudizio profondo e gusto per le cose del mondo”; non è Agatha Christie, ma un altro detective dell’animo umano: Baltasar Gracián (1601-1658), gesuita spagnolo, raffinato scrittore e navigato filosofo. Il suo Oracolo manuale, ovvero l’arte della prudenza è da poco tornato in libreria con i tipi di Adelphi, la traduzione e cura di Giulia Poggi e un saggio in appendice di Marc Fumaroli: una collezione di 300 aforismi, licenziata nel 1647 e diventata allora best-seller grazie all’edizione francese “tascabile”, grossomodo negli stessi anni in cui si leggevano Montaigne e Pascal.
Tradotto da Schopenhauer, amato da Nietzsche e La Rochefoucauld, compulsato da Borges – che pur non amava quello stile “strategico” e infiocchettato –, l’Oracolo è considerato un gioiellino della letteratura spagnola, giusto sul finire del Siglo de Oro, oltre che spregiudicato manuale del bon vivre per uomini di mondo, a cui Baltasar spiega come “ottenere la fama con il sudore degli altri”. Con la stessa ironia dell’omonimo di Delfi, il motto di questo Oracolo è “comprendere se stessi”, ma le armi del gesuita sono più smagate degli antichi: prudenza, riserbo, circospezione, discernimento, diffidenza, dissimulazione e persin ipocrisia, “doti” che, da sempre, hanno attirato sulla Compagnia di Gesù critiche e sospetti.
Altro aspetto precipuamente gesuitico è l’amalgama tra “malizia” e “milizia”, che rimanda alla struttura (natura?) politica dell’ordine fondato da Ignazio di Loyola. Gracián, e l’uomo a cui si rivolge, è machiavellico, astuto, seduttore e politico, appunto: un leader, senza ostentazione, che sa sfruttare l’“uncino dei cuori” e lasciare gli altri “con la fame”, in cambio di ammirazione, interesse, consenso e potere.
Insinuare, non dichiarare; abbozzare, non esporsi; suggerire, non indicare; saper creare attese; mai giocare a carte scoperte; circondarsi di bisognosi: “Si ricava più dalla dipendenza che dalla cortesia”. Sono queste le virtù del saggio, un onesto Iago dalle “intenzioni mai palesi”: bisogna essere– raccomanda Baltasar – “rabdomanti del cuore e linci delle intenzioni”; bisogna “saper eludere” e “far finta di non capire”. “Senza mentire, non dire tutta la verità”, la verità va sussurrata “sempre a mezza bocca” perché è “un salasso del cuore”. Condivisibile o meno, che prosa.
La prima delle “pietanze prudenziali” dispensate dal gesuita è ovviamente la moderazione, una “arancia non troppo spremuta”; seguono “sapere e coraggio, senno e forza”, conoscenza e giuste conoscenze, servirsi degli amici, scartare e dire di no, accomodarsi alle opinioni dei più. “Il dissenso è un’offesa… Soltanto Socrate se lo poteva premettere!”. Pur reazionario e ispirato da una antropologia negativa, fiele e humour, l’autore non disdegna, anzi, i belletti e gli artifici dell’arte, il gusto, la psicologia, ma come mezzi, non come fini, per diventare “un misto di colomba e serpente”.
“Non è stupido chi fa la stupidaggine, ma chi, una volta fatta, non la sa nascondere”: il grande nemico è la stupidità, foriera di eccessi, cocciutaggine, ridicolaggine, avventatezza, stramberia e bontà, che “da sola è cosa da bimbi e da stupidi”. Lo stoicismo qui è più estetica che etica: le passioni vanno dominate, ma soprattutto non esposte. “Non basta aver ragione, se la faccia esprime malizia… Il più grande disonore per un uomo? Mostrare che è uomo”.