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 2021  gennaio 12 Martedì calendario

Intervista a Max Sirena. Parla di Luna Rossa, del made in Italy e dello spionaggio in mare

Per fortuna che c’è il mare. Perché tutto il resto, ma proprio tutto, è diverso dal solito. E se intorno a questi uomini vestiti da marziani rivestiti di tessuto tecnico, con caschi e corpetti luccicanti, non ci fossero le onde, le vele e i gommoni con due motori, Max Sirena, lo skipper di Luna Rossa, potrebbe pensare di essere capitato altrove, sul set di qualche film di fantascienza magari.E invece è al suo posto. Cioè in banchina, nella baia di Auckland, sotto la base di Luna Rossa, alla vigilia della 36ª edizione dell’America’s Cup, quella che nei suoi sogni, o meglio, nei suoi progetti, deve essere “la sua”. «Qui in nuova Zelanda – racconta con il tono del romagnolo che in vita sua le ha viste tutte ma questa ancora gli mancava – c’è una situazione pazzesca. Perché è un posto a Covid zero e quindi è tutto normale, non ci sono mascherine, gel, distanziamento, coprifuoco. I ristoranti sono aperti, e la gente mostra il suo sorriso. Per uno che viene dall’Italia, l’impressione è quella di essere tornati indietro nel tempo di un paio d’anni, a quando eravamo liberi. E la cosa buffa, ma anche a suo modo bellissima, è che ci si riabitua subito a questa condizione di libertà: dopo poche ore, tutte le restrizioni e i Dpcm sembrano solo un brutto incubo».Nonostante questa strana libertà riconquistata, Sirena è però inquieto. Perché venerdì cominciano le sfide della Prada Cup, il trofeo preliminare, quello che selezionerà lo sfidante dei campioni in carica neozelandesi, e lui si sente addosso una doppia responsabilità: la prima è quella di essere finalmente arrivato al dunque dopo una campagna di quattro anni; la seconda è quella di rappresentare il suo Paese. Di “coppe” Max ne ha già vinte due – e questo di per sé basterebbe a giustificare l’intera vita di un marinaio – e però lo ha fatto in entrambe le occasioni con equipaggi stranieri (Oracle nel 2010, New Zealand nel 2017). Non esserci mai riuscito con una sfida italiana è ormai da tempo un cruccio ingestibile, un’ossessione che ha divorato ogni secondo della sua vita negli ultimi quattro anni.Sirena, partiamo dalle sensazioni.«È tutto stranissimo. Nel Paese non possono entrare i turisti e quindi a terra è il vuoto. Nel 2000 e nel 2003, quando uscivamo dal porto c’erano migliaia di persone. Oggi a malapena cinquanta».E questo “vuoto” vi delude?«Macché, lo osserviamo come da dentro un acquario. Del resto, come si dice, siamo in bolla. E poi siamo così concentrati che mille, cento o trenta persone ci cambia poco...»A Natale, dopo quattro anni di lavoro a Cagliari, da soli, avete messo in acqua le barche e vi siete misurati con gli avversari, sia pure per un trofeo secondario. A che punto siete?«Buono, penso. Abbiamo fatto qualche errore di troppo ma abbiamo imparato tanto».In una recente intervista al “Venerdì di Repubblica”, Paul Cayard ha detto che una delle motivazioni che sostennero l’avventura del suo Moro di Venezia, era quella di dimostrare che «l’Italia poteva eccellere anche in campi per i quali non è propriamente famosa come quello tecnico, operativo e organizzativo». Qual è la motivazione che invece spinge lei e i suoi uomini?«Esattamente quella opposta. Io penso che Cayard conosca poco l’Italia e che non gli sia bastato il tempo che ha passato da noi. Non voglio far polemica, ma gli ricordo che le bussole della Marina americana vengono fatte in Italia. E i radar a Pescara. Basta leggere la storia per capire che tecnica e organizzazione sono in realtà campi in cui eccelliamo. La mia motivazione è spiegare questo anche agli italiani. Siamo autolesionisti di default, e siamo negativi su noi stessi. Vede, noi di Luna Rossa battiamo bandiera tricolore non perché fa figo, ma perché la barca è tutta, tutta italiana. A bordo avremo al massimo il 5 per cento di pezzi di provenienza straniera, componenti standard. Il restante 95 è italiano.Dagli scafi ai sistemi di bordo, dall’elettronica ai software. E badi, qui stiamo parlando di barche che volano a 50 nodi, con sistemi di decollo e piloti automatici per la planata. Gestiamo tutto con tecnologia italiana. Ecco, il nostro obbiettivo è far capire che cos’è l’eccellenza del nostro Paese».Rispolveriamo la storia di Luna Rossa come la Nazionale della vela?«Mi piacerebbe. Mi piacerebbe soprattutto fare la mia parte perché il Paese trovi il coraggio di smetterla di parlare male di se stesso».A questo punto non le resta che vincere la Coppa.«Intanto cominciamo dalla Prada Cup, se no non si va avanti».Non le fa impressione che quella competizione abbia perso il suo nome storico di Louis Vuitton Cup?«Un altro trionfo dell’Italia, se ci pensate bene. Diciamolo a Cayard! È stata un’occasione che Prada ha colto al volo dopo l’ultima edizione.Per noi sarà un onore. E, ovviamente, un onere in più».Uno degli aspetti più caratteristici dell’America’s Cup è lo spionaggio industriale che in mare diventa sfacciato, con i gommoni neri pieni di rilevatori infrarossi e teleobiettivi. Si dice che il concorrente “più spiato” sia di solito anche il favorito. Chi sta avendo più attenzioni?«Be’ se quello è il parametro noi siamo messi benissimo. È impensabile pensare di uscire in acqua senza il codazzo di teleobiettivi, nemmeno alle quattro di notte siamo riusciti: il risultato è che gli scafi degli altri team sono identici alla prima versione della nostra barca. Buon segno».In Italia ancora non si è parlato molto della vostra campagna. Siete delusi?«No. Anzi. In verità riceviamo un sacco di messaggi ogni giorno.Supporter e fan in giro per il mondo.Ogni volta che pubblichiamo un video sui social facciamo il pieno di commenti, anche perché la barca è bellissima e il suo volo spettacolare.Ci manca il seguito qui sul campo.Ma sono sicuro che appena si entrerà nel vivo tutto si scalderà. Anche il tifo in Italia».