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 2021  gennaio 12 Martedì calendario

I 90 anni del cronista sportivo Valentino Fioravanti

«Ti regalo un titolo: “Hanno sparato a Chiampan”. La notizia ce l’avevo solo io, non l’ho mai data. Usala». Valentino Fioravanti, cantore omerico dell’arte pedatoria, ha passato una vita a pubblicare esclusive sul Verona Hellas, dal 1966 al 1996 per i lettori dell’Arena. Arrivato a 90 anni (li festeggerà il 13 febbraio), me ne regala una sul presidente che guidò i gialloblù dal 1986 al 1991. Notato il mio stupore, subito dettaglia: «Accadde mentre era in auto, a un crocevia. Fu fatto segno di alcuni colpi di pistola. Una mano celeste li deviò e Nando rimase fra noi. Lo rivelò solo a me. Per amicizia, m’impegnai a non scriverlo». Nonostante la veneranda età, il lessico resta quello vivido dell’immaginifico cronista di nera capace di competere con le grandi firme del Guerin Sportivo verdolino su cui si esercitava Gianni Brera, l’Arcimatto. E d’altronde Fioravanti si è fatto le ossa sulle scene dei delitti, come quello consumatosi in un’afosa notte d’agosto di mezzo secolo fa in via Pestrino, dove Renzo Pavini, 31 anni, un povero sordomuto di San Giovanni Lupatoto afflitto anche da una zoppìa, fu attirato in un’imboscata da tre amici che gli avevano promesso di fargli incontrare una donna, derubato di 44.000 lire e dell’orologio, strangolato, zavorrato e gettato in Adige.Dal 23 marzo 2018 il giornalista attende «la chiamata» che finalmente lo ricongiungerà per sempre con l’adorata moglie Laura Lessona, dalla quale ha avuto Marco, 53 anni, manager a Datacol; Luca, 51, giornalista a Telenuovo; Claudia, 47, veterinaria in una clinica per animali a Londra. «Siamo stati insieme per 52 anni. Un matrimonio felice. Mi manca». Andandosene, Laura gli aveva lasciato da accudire la propria madre, Carolina, vissuta fino a 105 anni nella loro villa di via Baracca, in Borgo Milano.
L’ex caposervizio dell’Arena è originario di Ceneselli (Rovigo). Figlio unico. La madre, Isolina Poli, aveva un negozio di stoffe. Del padre lì per lì non sa dirmi il nome: «Non abbiamo avuto grandi rapporti». Era direttore delle Poste nel paese polesano e voleva a tutti i costi lasciare in eredità al figlio il titolo di ufficiale postale: a quei tempi la legge lo consentiva. «Neanche se mi spari!», si ribellò Valentino. Di qui il pessimo ricordo, aggravato dal fatto che il destino poi lo costrinse davvero a seguire, per due interminabili lustri, le orme paterne.
Velocissimo tre quarti ala nella Giovinezza rugby di Rovigo, a 17 anni il giovanotto fu arruolato per la sua imponenza fra i 20 giovani democristiani che coprivano le spalle ad Alcide De Gasperi durante i comizi nell’infuocata campagna del 18 aprile 1948, quando il Fronte democratico popolare di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni minacciava di sbaragliare la Dc. «Ero nel Consiglio regionale dei giovani democristiani. Lo presiedeva Antonio Bisaglia, anche lui rodigino, nato due anni prima di me. Andavamo a tenere i discorsi nel triangolo rosso di Salara, Sariano, Occhiobello. I socialcomunisti ci rincorrevano con i forconi».
Quando cominciasti a scrivere?
A 17 anni. Un articolo per l’edizione di Rovigo del Gazzettino, che mi fu pubblicato in corsivo. Era dedicato al comico Taiadela, al secolo Dario Mantovani, cantastorie antifascista, che ripeteva di continuo: «La va mal e po’ gh’invanza», cioè andava malissimo. A un certo punto cominciò a esibirsi con i due figli, un piccolo coccodrillo, un serpente, una iena, un leone e due scimmie.
A chi devi la verve narrativa?
È mia. Vinsi un premio nazionale per il miglior compito in classe sul tema «Ascoltando il giornale radio». Lo bandì l’Eiar, progenitore della Rai.
Eri un maestro nei soprannomi.
Mi venivano d’istinto. Gianfranco Zigoni era Zigogol, ma anche Tafferuglio, per i casini combinati in campo. Preben Elkjaer divenne Cavallo Pazzo e Claudio Caniggia il Figlio del Vento. Roberto Mazzanti era Pantofola, per il suo tocco vellutato nel calciare il pallone in rete. Il presidente Giuseppe Brizzi semplicemente Foulard. Non ho mai usato i nomignoli Frusta e Caretiér appioppati a Garonzi per i suoi trascorsi lavorativi con il cavallo prima di diventare concessionario della Fiat. Per me era e resta Don Saverio.
Perché ti firmavi Valentino Poli?
Ordine di Renato Fioravanti, detto Padre. Dovevo figurare disoccupato, onde potergli subentrare come ufficiale postale. Disgrazia che mi capitò dopo essere arrivato a Verona in Vespa nel 1954. L’avevano trasferito alla succursale 7 delle Poste, a San Zeno, e ben presto mi sarebbe toccato ereditarla.
E nel frattempo?
Andai a lavorare come abusivo nella redazione del Gazzettino. Arrivò da Venezia il direttore Giuseppe Longo, siciliano, fine letterato. Chiese al capocronista Franco Ceriotto se i miei pezzi avessero bisogno di correzioni. Quello rispose: «Sì». Era falso. Non fui assunto.
A quel punto?
Succursale 7 delle Poste. Poi la 2 in centro storico. Infine lo sportello di Borgo Milano. Un decennio di dolore. Nel frattempo collaboravo con il settimanale Supersport. Lo dirigeva Gianni Reif. Se usavi il sinonimo «i canarini» per indicare i giocatori del Modena, dava di matto. Idem se utilizzavi «gli orobici» per quelli dell’Atalanta: «Sono bergamaschi, non pezzi d’artiglieria!», urlava. E a chi scriveva «i locali», chiedeva sarcastico: «Sfitti o da affittare?».
Scrivevi anche per Gialloblù, che usciva dalla stamperia Zendrini.
Fondato dal figlio di Arnoldo Mondadori, Giorgio, presidente dell’Hellas dal 1953 al 1958. Garonzi ci tolse la pubblicità, 5 milioni di lire, per un titolo: «Serie A, andata e ritorno».
Disavventure frequenti.
Quella che mi capitò alla Notte, dove nel frattempo ero stato assunto, fu ben peggiore. Una domenica andai a Riccione a trovare la mia futura moglie. Purtroppo, accadde che i figli – due, forse tre, ho rimosso – dello speaker del Verona, il ragionier Calvi, morissero in un incidente stradale. Bucai la notizia e fui licenziato in tronco. Chiesi al ministro Guido Gonella d’intercedere per me presso l’editore Carlo Pesenti. «È difficile arrivarci, ha troppi filtri», mi rispose evasivo.
Ti ritrovasti disoccupato.
E qui entrò in scena Giuseppe Faccincani, detto Profe, il miglior capocronista che L’Arena abbia mai avuto. Bravo, buono, appassionato. Moriva per il giornale. Mi disse: «Me piasarìa tanto asùmarte». E lo fece, convincendo il direttore Gilberto Formenti. Così mi ritrovai nella redazione di Volto Cittadella, alloggiata dentro le mura viscontee. Allora il giornale chiudeva alle 2 di notte. Siccome nessuno di noi aveva cenato, si stava fino alle 4 nell’adiacente bar Bra, che teneva aperto apposta per i giornalisti. Faccincani era capace di far fuori dieci uova sode al colpo. Un fenomeno.
Ecco perché alle 10 di mattina era sua moglie, Ivana Zecchini, a telefonare per comunicarci i servizi che il marito ci aveva assegnato prima di andare a letto.
Un giorno mandò Ermanno Ferriani a intervistare Giuseppe Bertelli, un medico mantovano che aveva sposato la mitica Tamara Baroni quando lei aveva appena 18 anni. A guardarla ti facevano male le pupille. Era diventata l’amante dell’industriale Pierluigi Bormioli, quello dei vasetti di vetro. Bertelli lavorava all’ospedale di Valeggio sul Mincio. Ferriani tornò da Faccincani a mani vuote: non lo aveva trovato. «Valentino, va’ tu», mi ordinò il Profe, smoccolando.
E che accadde?
Mi ci volle poco a individuare il marito della fedifraga. Lo fermai in corridoio. Dottor Bertelli, gli dissi, abbiamo la stessa disgrazia: lei lavora in un ospedale, io in un giornale, perciò o mi racconta qualcosa su sua moglie oppure mi tocca scrivere quello che mi pare. Vuotò il sacco. Temeva che Tamara rischiasse l’arresto per tentato omicidio dopo che un sicario aveva cercato d’investire con l’auto la marchesa Maria Stefania Balduino Serra, consorte di Bormioli.
Non lo angustiava che il settimanale Zip avesse allegato bustine in cui asseriva d’aver sigillato ciocche di capelli della moglie?
Di questo non parlammo. Dopo lo scoop sull’Arena, Gente pubblicò una mia intervista con Bertelli che avevo inviato al direttore Antonio Terzi.
Tempi eroici.
Quando le notizie non c’erano, s’inventavano, soprattutto d’estate. Robetta innocente, eh.
Come quella del ladro misterioso inseguito sui tetti.
Un classico. Quando scrissi che era stata rubata la cassaforte nel comando dei carabinieri di via Salvo d’Acquisto, scoppiò il finimondo. Ma era la verità. La conferma mi venne dal capo della Mobile.
Eri abbonato ai colpacci. Su Gente intervistasti Carlo Nigrisoli, il medico condannato all’ergastolo per essersi disfatto della moglie con un’iniezione di curaro.
Penso fosse giusta la definizione che l’avvocato Giacomo Delitala diede del suo assistito: «Innocente ma coglione». All’arringa finale, il grande penalista pianse. Non gli era mai accaduto in un processo.
Come riuscisti ad avvicinare Nigrisoli?
Attraverso un suo ex compagno di cella, il mite Ottobrini, uscito da Auschwitz benché pesasse 35 chili. L’ex internato aveva ucciso a rivoltellate la moglie adultera, l’amante, il gatto, il canarino, tutto ciò che aveva trovato vivo in casa. Gli avevo dedicato un articolo. Lasciato il carcere di Padova, venne a cercarmi qui a casa. Mia moglie disse: «Nascondiamo i bambini».
Facesti parlare anche Luciano De Maria, una delle sette tute blu della banda di via Osoppo.
Anche lui recluso a Padova. Ricordo una sua frase: «In 20 anni di galera non ho mai trovato nessuno che dicesse: “Sono stato io”. Tutti innocenti».
Avevi un debole per i fattacci?
No, per le notizie esclusive. Intervistai anche il mago Guido Salamini, che ipnotizzava cristiani e animali e faceva fumare le galline. Lo seppellivano e usciva dopo 48 ore passate sottoterra. Rischiò di morire annegato: avevano scavato la buca vicino a una risorgiva e la bara si riempì di acqua.
Eri specializzato anche nella cronaca rosa. Ti occupasti di Naike, la primogenita di Ornella Muti.
Vero. Secondo Clara Masserotti, un’anziana che abitava nel rione di San Zeno, madre di Alessio Orano, che fu il primo marito dell’attrice, il padre della bambina era lui, suo figlio.
Fosti il biografo dello stilista Ferdinando Sarmi, morto a 70 anni nel 1982, che esordì come attore in Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni, accanto a Lucia Bosé e Massimo Girotti.
Lo intervistai sul Garda, nella sua splendida villa sulla collina che domina Punta San Vigilio. Aveva un importante incarico in Vaticano. Dopo averlo sentito parlare durante una serata di gala, Elizabeth Arden lo convinse a dedicarsi alla moda a New York. La giornalista Diana Vreeland scrisse che quelli di Sarmi erano «i più bei vestiti da sera del mondo».
Ma come arrivasti al calcio?
Da giovane l’ho giocato, nel Ficarolo, nel Ceneselli, nello Zelo, torneo dilettanti.
Anche da cronista sportivo mettesti a segno molti scoop.
Quando è mancato Paolo Rossi, mi sono ricordato d’aver dato un buco a tutti, anticipando di un giorno sull’Arena la clamorosa notizia che si sarebbe ritirato per farsi operare alle ginocchia, ormai logore. A quel tempo giocava nel Verona. Una sera rimasi da solo ad aspettarlo fuori dagli spogliatoi del Bentegodi. Comparve alle 19.30. Lo rimbrottai: sto qui fuori da ore... E lui rispose: «Non dovrai più aspettarmi perché smetto di giocare. Mi farò operare a Vicenza».
Nei tuoi resoconti pallonari infilavi sempre un po’ di gossip.
Ti riferisci al fatto che la seconda moglie di Gianfranco Zigoni aspettava a casa il campione dopo le partite completamente nuda, con addosso solo una pelliccia?
Più o meno.
Allora senti questa, su Zigogol. Arrivo a Roma un sabato sera, insieme con alcuni dirigenti del Verona, per raggiungere la squadra. L’indomani avrebbe affrontato i giallorossi all’Olimpico. Erano i giorni del sequestro Moro, nella Capitale vigeva un coprifuoco non dichiarato. La nostra auto, illuminata dal faro di un elicottero, viene bloccata da due blindati della polizia. Si avvicina un tenente in assetto di guerra: «Chi siete? Dove andate?». Spiego che siamo diretti verso l’hotel dov’è alloggiato l’Hellas. Quello scoppia a ridere: «E che cosa pensate di fare senza Zigoni?».
Il più grande calciatore che hai visto in campo?
Diego Armando Maradona. Debuttò con il Napoli proprio a Verona. Fu marcato da Hans-Peter Briegel. Mi accorsi durante un allenamento di come sarebbe andata, perché il tedesco stava alle costole di Giuseppe Galderisi, schierato come controfigura di Maradona. E infatti il «piede di Dio» non segnò e finì 3-1.
Il più bravo allenatore del Verona chi è stato?
Osvaldo Bagnoli. Ma Giancarlo Cadé lo era altrettanto.
Il miglior presidente?
Garonzi. Stava attento a risparmiare i 10 centesimi sulle bottiglie di acqua minerale.
I fuoriclasse lasciavano L’Arena per andare al Corriere della Sera, alla Stampa, nei settimanali: Giulio Nascimbeni, Silvio Bertoldi, Stefano Reggiani, Lorenzo Vincenti, Luciano Falsiroli, Roberto Franchini, Ezio Benetti, Fabrizio Scaglia, Guido Caretto, Gianfranco Fagiuoli, Enrico Pugnaletto, Giuliano Marchesini. Alcuni di loro diventavano direttori. Tu sei rimasto a Verona. Perché?
Terzi mi avrebbe voluto a Gente. Mi offrì una cifra astronomica, 1 milione al mese. A quel tempo una Fiat 1100 costava 900.000 lire. Conosci un giornalista che oggi potrebbe comprarsi un’auto con una mensilità di stipendio?
Uno solo: Vittorio Feltri.
Te ne dico un’altra: per la prima notte di nozze, portai Laura all’hotel Diana di Alassio, dove di solito soggiornava l’attore Carlo Dapporto. Cena di pesce con champagne e pernottamento: 14.400 lire. Conservo ancora la ricevuta. Scaglia mi fece una corte spietata per portarmi all’Occhio di Maurizio Costanzo. Ma ci stavamo costruendo questa villa e Laura insegnava ai bambini handicappati in una scuola qui dietro casa, dopo aver seguito un corso di specializzazione alla Cattolica di Milano. Non me la sentii di buttarle all’aria la vita.
Le volevi proprio bene.
È l’unico amore che ho avuto. Era nata a Novara. La prima volta la vidi a Riccione d’estate. Ci salutammo per strada. Le feci un complimento galante. Lei fu molto diretta: «Non cerco avventure in vacanza». Allora ti sposo, ribattei. A febbraio eravamo marito e moglie. Comprammo la seconda casa vicino a viale Ceccarini, in ricordo del primo incontro.
C’è un collega con cui rimpiangi di non aver lavorato?
Silvio Bertoldi. Da capocronista dell’Arena, si vide arrivare in ufficio un fattorino: «Il sindaco la vuole con urgenza a Palazzo Barbieri». Bertoldi replicò: «Riferisca che il giorno in cui avrò bisogno di conferire con il signor sindaco mi presenterò in municipio. Se invece è lui che ha bisogno di parlare con me, mi trova qui in redazione».
Come passi le giornate?
Leggo La Gazzetta dello Sport e il Corriere della Sera. Approfondisco qualche notizia su Internet. Ho tre figli premurosi che mitigano l’attesa. Per distrarmi, Claudia mi ha voluto ospitare per due mesi nella sua casa di Londra. Mi ha persino portato a un concerto degli Snarky Puppy, una band jazz, alla Royal Albert Hall. Diversivi. Io aspetto solo la chiamata.
Hai avuto una bellissima vita, ammettilo.
Sì, anche se ho faticato tanto e mi sono procurato parecchi nemici. Di sicuro non avrei fatto cambio con quella dei miei detrattori. Ma adesso ho paura di doverla scontare per intero in purgatorio. Significherebbe dover aspettare 90 anni prima di rivedere la mia Laura. Non lo sopporterei.
(L’Arena)