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 2021  gennaio 12 Martedì calendario

Dimissioni congelate, il caso Goria nel 1987

Un piccolo partito del 2% che apre la crisi di governo perché gli “impegni sono stati disattesi”, il ministro che lascia in contrasto con la strategia di come spendere i soldi, patti segreti tra i segretari dei due partiti di maggioranza, il “no” a un mini-rimpasto e il timore di una crisi al buio. Sembra oggi, con Italia Viva che minaccia di aprire la crisi del governo Conte, ma stiamo parlando di 33 anni fa. Siamo nel novembre 1987: il crac di Wall Street e le tensioni politiche tra la Dc di Ciriaco De Mita e il Psi di Bettino Craxi stavano lacerando l’ennesimo governo pentapartito guidato dal democristiano Giovanni Goria, formato solo quattro mesi prima per volontà del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Un uomo debole per una maggioranza debole. Tant’è che la battuta che girava nei palazzi era: “Giovanni Goria di Francesco”. Le tensioni nella maggioranza si riversarono tutte nella legge finanziaria, ma la crisi fu inaspettata e sottovalutata da tutti: ad aprirla, il 13 novembre 1987, il Partito Liberale (Pli) di Renato Altissimo che prima in un vertice a Palazzo Chigi con i segretari di partito e poi in consiglio dei ministri, fece ritirare il suo unico rappresentante, Valerio Zanone (Difesa), perché nella legge finanziaria non erano stati inseriti 3mila miliardi di lire di sgravi fiscali a commercianti e artigiani.
Da giorni i retroscenisti vedevano le manovre di Craxi ma anche la volpe di Andreotti, pronto a logorare De Mita, dietro alle mosse di Altissimo. Come si legge nelle cronache dell’epoca (il 14 novembre il Corriere titolava: “Scommessa su un Goria bis”), a quel punto l’ipotesi più probabile sarebbe stata quella di una “crisi pilotata” e la formazione di un Goria bis. Non ce ne fu bisogno. Il presidente del Consiglio salì al Colle per rassegnare le dimissioni che furono accettate ma “congelate”. Giusto il tempo, tre giorni, per trovare un accordo: il 18 novembre Cossiga respinse le dimissioni di Goria con una nota in cui faceva capire che non era il momento per impallinare il premier e che la crisi sarebbe arrivata presto.
Così rimandò Goria alle Camere dove il giorno dopo il governo ottenne la fiducia: l’esecutivo cadde 3 mesi dopo, venuto meno il veto di Craxi su De Mita a Palazzo Chigi. Quel potere a “fisarmonica” di Cossiga di congelare le dimissioni del premier dimissionario si potrebbero ripetere ancora oggi con Sergio Mattarella che potrebbe fare lo stesso con Giuseppe Conte: far approvare il Recovery Plan e poi reincaricare il premier forte di un nuovo “patto di legislatura” e una nuova squadra di ministri.
L’altro precedente che viene citato in questi giorni è quello dell’ultimo governo Berlusconi quando, incalzato dallo spread e dalle tensioni interne alla sua maggioranza (dai finiani all’Udc), il premier decise di salire al Colle per dimettersi dopo il voto sul Rendiconto generale dello Stato su cui non erano arrivati i 316 voti necessari alla maggioranza. Ma anche in quel caso il presidente Giorgio Napolitano gli pregò di restare almeno per far approvare la Legge di Bilancio. Questione di una settimana. Nel frattempo Napolitano nominò senatore a vita Mario Monti e il 16 novembre lo incaricò di formare un nuovo governo di tecnici. Quello che Giuseppe Conte spera di evitare.