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 2021  gennaio 12 Martedì calendario

Il toro è il primo fra gli dei

Direttore dell’Ecole pratique, titolare della cattedra di Storia del simbolismo in Occidente, da anni Michel Pastoureau rielabora l’identità europea attraverso elementi a prima vista secondari, oppure dati per scontati. I colori, per esempio, il perché e il significato della loro scelta; gli animali, il loro utilizzo, la loro messa a morte; l’araldica, i suoi rimandi, il suo linguaggio quasi cifrato Tutto ciò di cui noi europei moderni ci serviamo o a cui facciamo riferimento senza accorgersene, affonda in un passato mitologico e mitico, religioso, artistico e scientifico affascinante per verità e ricchezza.
L’ultimo libro di Pastoureau in materia si intitola Il toro. Una storia culturale (Ponte alle Grazie, traduzione di Cecilia Resio, pagg. 152, euro 20) ed è una riflessione intorno a quello che resta probabilmente il primo dio creato dalla fantasia e dai bisogni dell’essere umano, una divinità primitiva e selvaggia, energica e potente, fecondatrice. Grazie anche a un ricchissimo apparato iconografico, quadri, sculture, gioielli, ceramiche, mosaici, l’autore accompagna il lettore lungo un cammino plurimillenario che dalle grotte di Lascaux, con i suoi graffiti rupestri, arriva a Picasso, alle sue tauromachie, alle sue ossessioni dell’uomo-toro, passando per le miniature medievali, l’incisione rinascimentale, la pittura moderne contemporanea. Il toro come una star dell’arte europea.
Intelligentemente, Pastoureau non si lascia prendere dalla smania, e dalla mania, di globalizzare ciò che è locale: il toro non è un’«invenzione» del Vecchio continente, esiste nel Nuovo così come in Oriente, ma la storia culturale degli animali, spiega, è innanzitutto «una storia sociale, un intreccio di lingua e lessico, creazioni letterarie e artistiche, emblemi e simboli, credenze e superstizioni, tipiche di una data società. Per condurre questa storia in modo fruttuoso, bisogna comprendere a fondo la relativa società». Detto in altri termini, relativizzare e/o generalizzare, non porta da nessuna parte e dà solo letture e interpretazioni distorte.
Nel libro c’è spazio, naturalmente, per il bue docile e paziente, per la vacca, con tutte le sue implicazioni lessico-sessuali, per il vitello, ma è sempre e comunque il toro ad avere, mi scuso per il bisticcio, la parte del leone È da lui che deriva il mostro più famoso della mitologia greca, il Minotauro, di cui la versione più classica è quella raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, è suo tramite che vengono elaborati i cosiddetti riti di passaggio o le prove difficili da superare nel corso di una ricerca. L’impresa di Teseo che sconfigge il Minotauro, fa della vittoria su un toro il segno supremo dell’eroismo e della virilità nel mondo greco, e nella stessa ottica Giasone impone il giogo ai mostruosi tori di Efesto, prima di impadronirsi del Vello d’oro, Eracle riporta in Grecia il toro furioso di Poseidone che devastava Creta, ed è la sua settima fatica
Non sorprende che il portato finale di tutto questo sarà il mitraismo, che nei primi secoli dopo Cristo sarà, all’interno dell’impero romano, la religione in competizione con il cristianesimo, avendo in comune, nota Pastoureau, «un certo numero di dogmi: monoteismo, fede nella resurrezione, battesimo per la purificazione, rifiuto del peccato» Sono i sacrifici a differenziarle totalmente, perché per quest’ultima quello di Cristo sulla croce dispensa da tutti gli altri. 
Non sorprende neppure che, con la sua vittoria finale il culto di Mithra si trasformi, nei bestiari medievali, nel culto per una creatura diabolica, cui viene contrapposta la castità e la pace dei sensi, la mansuetudine del bue nella mangiatoia
Bisognerà arrivare al Rinascimento perché il simbolismo del toro torni a essere valorizzato: «È nuovamente il simbolo dell’abbondanza e della prosperità, dell’energia fertile e della forza indomita, della potenza guerriera e del potere sovrano». Nel 1546, la scoperta, nelle terme di Caracalla, del gruppo scultoreo del celebre Toro Farnese, 24 tonnellate di peso per quattro metri d’altezza, la raffigurazione del supplizio della crudele Dirce, regina di Tebe, allacciata alle zampe e alla coda di un toro furioso, strumento di vendetta e di giustizia, ne certifica la rinascita. È singolarmente un papa, Paolo III, antichista e commendatario degli scavi, a tenerla a battesimo, ma è già alla fine del Quattrocento, con Alessandro VI Borgia, che il toro è tornato ai suoi antichi splendori: un «toro di rosso passante su un terrazzo di verde» campeggia del resto nel blasone di quello che resta, scrive Pastoureau, «il pontefice più calunniato della storia», ma anche «intelligente, colto, amico delle arti e delle lettere, mecenate generoso e fine politico». Nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, la pittura murale di Francesco del Cossa rimanda alla figura del toro mentre presiede alla rinascita degli amori a primavera
In Il toro. Una storia culturale, un lungo capitolo è dedicato anche alla tauromachia e alle origini della corrida in quanto tale. Pastoureau smonta i cosiddetti legami e/o continuità fra il mondo antico e la corrida moderna, le cui regole vengono stabilite in Spagna alla fine del XVIII secolo. In particolare, contesta una filiazione proprio del culto mitraico in quanto quest’ultimo «non è affatto un culto del toro: è una religione misterica, che ha per divinità il sole; l’animale in sé non è un dio o un semidio, ma è un semplice oggetto sacrificale».
Sono stati Montherlant in Les bestiaries, un romanzo del 1926, e Picasso in molta della sua pittura, i più tenaci assertori di un rapporto di questo genere, ma, tornando alla spiegazione di Pastoureau, quest’ultima non suona del tutto convincente, perché anche nella corrida il toro è l’elemento sacrificale, il cosiddetto rito di passaggio. Un quarto di secolo fa in un bel libro, Bestiario segreto, oggi meritoriamente ristampato dalla casa editrice Oaks, Alfredo Cattabiani, nel descrivere i bassorilievi e le pitture dei templi mitraici di San Clemente o di Santa Prisca, metteva in rilievo che «il giovinetto divino dal berretto frigio sacrifica un toro per ordine del re Sole. Mithra sembra adempiere alla sua missione a malincuore: voltando il capo all’indietro, afferra con una mano le froge dell’animale mentre con l’altra affonda il coltello nel fianco, e da quel sacrificio nascerà il mondo visibile». Fra il taurobolio, il battesimo del sangue in onore della dea Cibele nel mondo romano, e la «comida comunitaria de la victìma sacrificada», l’antico rito spagnolo della cosiddetta eucaristia taurina, ci sono molti più punti di contatto di quanto non si voglia credere
La corrida moderna, scrive Pastoureau, nasce in Spagna a metà Settecento e ha in José Delgado Guerra, detto Pepe-Hillo, il suo primo teorico: il suo La tauromaquia o arte de torear è del 1796. Trent’anni dopo, un altro celebre matador, Paquiro, ne codificherà le regole: paseo, ovvero sfilata dei partecipanti; tercios, le tre parti, ovvero picas, banderillas e faenas; uccisione finale del toro. A Pastoureau la corrida non piace, ma ci dice sulla storia simbolica del toro nella nostra società contemporanea, più di quanto sia disposto ad ammettere.