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 2021  gennaio 11 Lunedì calendario

12QQAFA20 Tutti gli amici di Lady Oates

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Una delle colpevoli menzogne del contemporaneo è l’adagio secondo cui scrivere è un atto solitario. Il fatto che, mentre scriviamo, nessuno sia con noi – se non il foglio, il pc, la pagina di Word con il cursore intermittente – è una verità soltanto apparente, cioè materiale; e questo perché, invece, insieme a noi, cioè dentro di noi, c’è lo scrittore che siamo: quell’insieme immateriale di immagini e presenze che nutrono la scrittura. Non si tratta, però, solo di maestri o modelli: ha ragione Roland Barthes quando parla di “fantasmes”. Ed è in questa direzione, quella di dialogare con i propri fantasmi letterari, che possiamo leggere Nuovo cielo, nuova terra (Il Saggiatore, pp. 270, euro 22) di Joyce Carol Oates, il cui titolo già declina il conflitto materiale/immateriale.
A Virginia Woolf, Oates deve l’idea di un mondo soggettivo in cui le relazioni umane tra spiriti privi di corpi più che personaggi ruotano attorno a una morsa mentale: l’idea che la dimensione estetica, cioè l’arte, controlla e distorce la vita. In più, tenta di ereditare la vague impressionista che trascina le opere woolfiane (Gita al faro, Le onde, La signora Dalloway) verso le tensioni tra vita e morte, conscio e inconscio, intimità e isolamento, che fanno dell’esistenza un’esperienza psichica. Accanto a lei – in questa specie di altare dove ognuno recita la propria giaculatoria senza mai stonare – Oates ammira la poesia brusca ed esasperante di D.H. Lawrence “che impone su di noi – scrive l’autrice – la sua musica bizzarramente febbrile, bizzarramente delicata”, soprattutto per il senso di immortalità che deriva dalla violenta e autarchica magia di versi come: “… il mio cuore si accusò/ pensando: non sono misura del creato.” L’incantesimo che Lawrence compie nelle sue liriche non è solo quello di rifiutare il dogma secondo cui l’uomo è la misura di tutte le cose, ma di rivelarsi quale scrittore “mistico che tende all’altrove” e che invece racconta l’uomo come schiacciato dalla sua triviality di essere ordinario. Legati al misticismo dell’autore de L’amante di lady Chatterley – in quel territorio che è la devozione letteraria di Oates – si muovono da un lato Franz Kafka, che avversa il concetto di eroe: l’eroico è una modalità di azione, mentre “la commedia grottesca dell’intera opera di Kafka” si basa sulla contemplazione dove – non essendoci lotte disponibili – l’antieroe crea la lotta dentro di sé; e infine “il mondo purgatoriale di Samuel Beckett”: meno noti delle opere teatrali, nei romanzi Molloy, Malone e L’innominabile possiamo essere certi solo dell’incertezza dato che l’identità resta per sempre l’incognita nell’equazione narrativa.
In questo saggio-riflessione al confine con la divagazione sulla letteratura moderna e contemporanea, Oates ritrova i filoni che rappresentano il suo nucleo più prezioso, e cioè l’esperienza visionaria: la scrittrice è certa che gran parte della vita umana debba sparire prima di poterci fornire un romanzo, e suggerisce ben chiara una netta divisione tra la scuola europea e quella americana. Gli scrittori americani credono troppo nella terra, nella realtà, pongono eccessiva fiducia nella certezza fisica, vivono dentro una bolla di illusione – o meglio di autoinganno – di una vittoria finale. Oates, invece, prende a modello più il canone europeo, il romanzo del cielo, trascendentale, la lettura metafisica del mondo che, dopo l’Ottocento, ha contezza dell’uomo quale eroe dell’incertezza. Come lei, tuttavia, anche altri suoi connazionali: Flannery O’Connor, la cui narrativa – priva di intenzioni realistiche – dovrebbe essere letta come una serie di parabole in cui si celebra la necessità di soccombere “alla pazza ombra di Gesù” attraverso una violenza irreparabile; Silvya Plath e la sua spietata solitudine, con cui celebra le esequie delle “agonie terminali del romanticismo”; e ancora Henry James, ossessionato dal mito della Caduta morale, e nei cui romanzi l’immaginazione di stampo realista si ritira.
Sul tracciato di altri illustri americani “immateriali” come lei, Oates – candidata più volte al Nobel per la sua sconfinata, luminosa e versatile produzione – è stata capace di pitturare l’America con spietato senso critico. Per lei, l’America annega nell’“acqua nera” (come racconta nella novella Acqua nera); e nella quadrilogia Epopea americana, il famigerato sogno a stelle e strisce si rivela più un incubo di solitudine urbana, proprio come in certi quadri di Hopper. E infine, nel suo ultimo romanzo, il distopico Rischi di un viaggio del tempo, una ragazza del futuro sconsideratamente idealista viene mandata indietro nel tempo di ottant’anni e si ritroverà a fare i conti con la materialità devastante del mondo, da cui non è detto che l’amore potrà salvarla.