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 2021  gennaio 11 Lunedì calendario

Intervista al giudice Ambrogio Moccia

«Sa qual è uno dei pericoli maggiori per chi fa il mestiere di giudice? Credere di dover cambiare il mondo, di portare la giustizia nella società. Mentre il nostro compito è solo e soltanto fare giustizia nel caso singolo, nella vicenda concreta che ci viene sottoposta. E le assicuro che già questo a volte è terribilmente difficile».
Alla fine di un anno che ha devastato la magistratura italiana, portando alla luce i veleni e le miserie che la attraversavano, è andato in pensione un giudice bravo e per bene come Ambrogio Moccia. Poteva lavorare altri due anni, ha scelto di mettere i suoi doveri privati davanti all’attaccamento alla carica. Il 23 dicembre ha tenuto la sua ultima udienza nell’aula della Quinta sezione penale del tribunale di Milano, sotto il grande affresco da cui – in mezzo a santi e filosofi – Benito Mussolini guarda in tralice giudici e imputati, avvolto nel cappotto da caporale della Milizia. Sotto quello sguardo, per anni sono passati nell’aula di Moccia drammi terribili: perchè la Quinta è la sezione dei reati più disgustosi, gli stupri, le pedofilie.
Come si convive con il mestiere di giudicare altri esseri umani?
«Semplicemente, non giudicandoli. Ricordandoci sempre che non siamo chiamati a giudicare l’uomo, ma il reato che ha commesso».
Fa molta differenza?
«Una differenza assoluta. Non c’è essere umano che possa avere la presunzione di giudicare i propri simili. Io non mi sono mai sentito migliore delle persone che avevo davanti come imputati. Se avessi avuto un percorso di vita diverso, se fossi cresciuto in un’altra famiglia o avessi fatto altre esperienze, chi mi dice che non avrei potuto essere al loro posto? Sant’Agostino ci dice: odiate il peccato, amate il peccatore. Ho cercato di applicare questo precetto al mestiere di giudice».
Davvero è riuscito ad amare i suoi imputati?
«Se non ad amarli, a rispettarli. Certo, non sempre è stato facile. E non parlo solo dei processi di questi ultimi anni, degli imputati di reati sessuali. Forse non ci si rende conto del carico di coinvolgimento emotivo con cui un magistrato, se fa il suo mestiere con coscienza, deve fare i conti. Devi lavorare su te stesso, sulla tua tenuta psicologica».
Qual è il processo che l’ha più coinvolto emotivamente?
«Senza dubbio quello sulla strage di Linate, dove l’8 ottobre 2001 persero la vita centodiciotto persone. Avevo accanto a me due colleghi di spessore, e mi ricordo come prima di vedere il filmato girato dalla polizia a bordo dell’aereo che si era schiantato contro l’hangar dei bagagli dovemmo parlarne a lungo, per avere la certezza che fossimo pronti a vedere tutti quei morti. Fu un processo tecnicamente complesso e ancora più difficile sul piano umano».
Come andò a finire?
«Condannammo tutti i quattro imputati, e posso garantire che non fu una condanna a cuor leggero. Ma in appello due dei quattro imputati, il direttore di Linate e il responsabile degli aeroporti lombardi, vennero assolti per non avere commesso il fatto. Da giudice, devo dire che la sentenza giusta fu quella d’appello, visto che venne confermata dalla Cassazione. Ma non posso dimenticare l’indignazione dei familiari».
Lei come la prese?
«Poco dopo chiesi di andare via da Milano».
E dove andò?
«Accettai un posto all’ispettorato generale del ministero della Giustizia».
Un lavoraccio, praticamente l’Ufficio «Affari Interni» della magistratura. Si va a fare le pulci al lavoro dei colleghi, a individuarne le magagne.
«Un lavoro difficile, bello e stimolante».
Immagino le pressioni.
«Mai subite. Però...».
Però?
«A un certo punto ci mandarono a fare una ispezione straordinaria in uno degli uffici più delicati di uno dei tribunali più importanti d’Italia. Non ero io a guidare la squadra, ma il collega che era alla testa a un certo punto ebbe un infarto, così mi ritrovai designato a scrivere la relazione finale. Fu una relazione assai pesante, perché la situazione in quell’ufficio era davvero da non credersi. Dal momento in cui depositai la relazione, mi resi conto che il clima era mutato; da parte dei vertici dell’Ispettorato era maturata nei miei confronti, come dire... una palese disaffezione. Così chiesi di lasciare il ministero e di tornare a fare il giudice a Milano».
Che situazione trovò?
«Bisogna fare un passo indietro. La prima volta ero arrivato a Milano nel 1997. Provenivo da Monza, dove ero giudice del tribunale e dove mi ero candidato alle elezioni comunali con una mia lista».
É giusto che un giudice si metta in politica?
«Se vuoi fare politica devi metterti in politica. Intendo dire che l’obbrobrio sono quei magistrati che vogliono fare politica a colpi di sentenze, che puntano a cambiare gli assetti del paese usando i processi. Se vuoi cambiare le cose, devi candidarti e farti votare. Io lo feci. Andai bene, arrivai al ballottaggio e lo persi. Per le norme di allora, avrei potuto restare a Monza e fare contemporaneamente il giudice e il consigliere comunale. Mi parve impensabile, e chiesi di venire a Milano, dove approdai alla Quinta sezione come consigliere anziano, una sorta di vicepresidente. Allora le sezioni non erano divise per materia, si faceva di tutto. Ma l’esigenza di una specializzazione c’era. Quando si trattò di dividere le materie, alla Quinta toccò la pagliuzza corta: i processi sui soggetti deboli, le violenze sessuali, le brutture familiari. Processi che non davano alcuna visibilità mediatica, e che per questo non erano particolarmente accorsati dai colleghi: l’epoca del Metoo non era ancora arrivata. L’accordo era che dopo quattro anni le sezioni avrebbero fatto una rotazione: invece, come spesso accade, il provvisorio è diventato definitivo».
Eppure quando lei torna a Milano dal ministero, torna proprio alla Quinta.
«Per due anni ho fatto il giudice preliminare. Ma appena sono stato nominato presidente di sezione, non ho avuto dubbi: la Quinta era libera, e ho chiesto di tornare lì. Poche vicende umane hanno la drammaticità dei casi che vengono portati in quell’aula».
Sono processi terribili. Come si applica a uno stupratore di bambini il precetto di Sant’Agostino? Non le è mai successo di provare disgusto, oltre che per il reato, anche per l’essere umano che lo ha commesso?
«Il disgusto l’ho provato, più di una volta. Ogni volta l’ho prima elaborato e poi rimosso. L’ho provato davanti a comportamenti abominevoli, a qualche campo di imputazione in cui trovavo abiezioni umane quasi indefinibili. Sì, ho provato la tentazione del ribrezzo verso la persona. Penso ai delitti contro i minori, alle bambine di quattro o sei anni fatte prostituire dalla madre, ai reati che viene voglia di definire contro natura”, perché ci appaiono reati non da esseri umani. Ho dovuto lavorare su me stesso, mi è costato fatica, ma sono riuscito a liberarmene. Ma accanto a questo ci sono i tanti imputati verso cui ho provato sentimenti di comprensione, direi di affettività positiva, e che mi hanno ricambiato col loro rispetto».
Lei dice: non giudico l’uomo, giudico il reato. Però poi in galera ci finisce l’uomo in carne ed ossa. Dopo trentotto anni, crede che tutto questo serva a qualcosa? I processi, le condanne, il carcere rendono una società migliore?
«Si giudica il reato, si manda in carcere l’uomo che lo ha commesso e che dovrebbe riflettere sulle proprie azioni. Quando si parla della pena rieducativa, di un carcere che dovrebbe essere luogo di recupero sociale e soprattutto psicologico, si entra in un ambito che non conosco, perché non ho mai lavorato in un tribunale di sorveglianza, che sono gli uffici giudiziari a contatto diretto con gli istituti penitenziari. So però alcune cose. La prima è che in carcere per davvero ci va una percentuale modesta dei condannati, anche tra coloro che hanno subito condanne rilevanti. La seconda che è auspicabile che il carcere porti a cambiamenti interiori, se non altro sulla consapevolezza della non convenienza di commettere i reati. Il delitto non paga, si diceva una volta, ed è bene che questo sia chiaro. Infine le garantisco che non ho mai irrogato volentieri una condanna, anche se godo fama di una certa severità».
Eppure diversi suoi colleghi, anche autorevoli, si dicono ormai convinti della inutilità del carcere.
«Le faccio un esempio contrario. Molti anni fa, nel 2002, quando alla Quinta sezione si faceva un po’ di tutto, fummo chiamati a giudicare tre giovani tunisini accusati dal pm Stefano Dambruoso di fare parte di una formazione terrorista, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento. Eravamo agli albori delle indagini sull’estremismo islamico, e le imputazioni riguardavano soprattutto la realizzazione di documenti falsi per agevolare gli ingressi clandestini in Italia dei futuri militanti, quindi era impossibile infliggere pene particolarmente pesanti. Ma noi fummo il più severi possibile, e per due imputati andammo anche oltre le richieste del pubblico ministero. Ecco, dopo la condanna uno dei tre imputati, Riadh Jelassi, scelse di collaborare con gli investigatori, e divenne una fonte preziosa, grazie alla quale furono individuati e arrestati numerosi terroristi. Quanti lutti sono stati evitati? E Jelassi avrebbe scelto di collaborare anche se fosse stato condannato blandamente?».
Il suo ultimo anno di lavoro ha coinciso con il ciclone del «caso Palamara» che ha investito la magistratura. 
«Gli avvenimenti che sono emersi mi hanno provocato grande tristezza però non posso dire che mi abbiano colto di sorpresa. Non mi sono meravigliato».
Come se ne esce?
«Penso con rimpianto ai tempi in cui da parte dell’Associazione nazionale magistrati si considerava una garanzia di indipendenza l’avanzamento in carriera per semplice anzianità, a parte i casi di demerito. A quei tempi anche per la scelta dei capi degli uffici il criterio dell’anzianità veniva valorizzato al massimo. Questo voleva dire ridurre molto i margini di discrezionalità del Consiglio superiore della magistratura. Oggi si sono combinati due fattori: il meccanismo elettorale del Csm che garantisce come canale ineluttabile per l’elezione del magistrato il percorso correntizio, e dall’altro un atteggiamento magari in buonafede ma pericoloso che ha portato gli esponenti delle correnti a considerare la adesione alla corrente una credenziale di qualità etica. Da parte dei maggiorenti si è manifestata in questi anni una prassi di ipervalutazione delle persone che alla propria corrente facevano riferimento, in un groviglio di atteggiamenti psicologici e operativi per cui alla fine proporre a un incarico un magistrato della propria fazione veniva considerata una scelta di qualità e non di partigianeria. É la degenerazione, o anche solo la semplice applicazione di questi meccanismi, ad avere portato alla situazione attuale».
Cosa farà in pensione?
«Mi dedicherò alla mia famiglia, soprattutto. E può stare certo che nel pianificare la prossima vita, che non sarà solo quella del papà amorevole, non ho intrapreso alcun dialogo con alcun soggetto di forte rilievo politico. Non mi succederà quello che ho visto succedere a parecchi altri colleghi che il giorno dopo avere lasciato la magistratura si sono visti nominare a questo o a quell’incarico di nomina politica. Purtroppo accade con una certa frequenza. Io credo di sapere come ragionano i politici, e so che se oggi nominano qualcuno ad un dato incarico è perché lo hanno frequentato anche prima di nominarlo, quando faceva il giudice, e lo hanno trovato affidabile. Mentre io non ho mai investito un sorriso professionale per prenotare una riconoscenza».