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 2021  gennaio 10 Domenica calendario

Il fascino eterno e insensato del Grande Gatsby

Alungo mi sono attenuta al criterio – non suffragato da prova alcuna – che sia più facile scrivere di un personaggio protagonista che di uno secondario davvero memorabile. Talvolta, una semplice figura delineata con pochi tratti di penna e pochi aggettivi carismatici sembra un successo quanto mai improbabile, nato da un eccesso di acume ed energia, una sovrabbondanza di amore per un mondo immaginario che si esprime nel desiderio di animare perfino i suoi partecipanti di minore importanza.
F. Scott Fitzgerald eccelleva in questo tipo di caratterizzazione. Prendiamo in considerazione Owl Eyes (così è chiamato per i suoi grandi occhiali), uno dei molti frequentatori delle feste presso la residenza di Gatsby. Quando ne facciamo la conoscenza, si sta aggirando nella biblioteca e non sembra capace di uscirne: è come paralizzato, fissa i libri incantato e inebriato.
Mi chiedo se oggi non siamo tutti Owl Eyes. Nel secolo trascorso da quando è stato pubblicato Il grande Gatsby, poco più poco meno, ci siamo persi nella sua casa, murati vivi in una riscoperta senza fine. Questa riscoperta non farà che accentuarsi ancor più, ora che il 2021 vede scadere i diritti sul romanzo. Escono in questi giorni la nuova edizione della Modern Library, con un’introduzione di Wesley Morris, un critico del New York Times, e un’altra per i tipi di Penguin con introduzione della scrittrice Min Jin Lee. Sempre in questi giorni esce il prequel Nick di Michael Farris Smith.
Tutto ciò arriva dopo parecchi film, adattamenti per il teatro, e altre trasposizioni ancora. Il romanzo è stato ambientato in una Manhattan post 11 settembre in Netherland da Joseph O’Neill; nella Londra del XXI secolo in Gorsky di Vesna Goldsworthy; nella casa di una famiglia di colore del Nord Carolina di oggi in No One Is Coming to Save Us di Stephanie Powell Watts. Gatsby è stato fonte di ispirazione per il teatro immersivo, i romanzi per adolescenti, una canzone di Taylor Swift — Happiness, nel suo ultimo disco, mette insieme immagini e versi tratti dal romanzo. Perfino i personaggi secondari più defilati hanno avuto i loro spinoff: Pammie ha tre anni nel libro di Fitzgerald, ma Tom Carson ne ha raccontato la storia in Daisy Buchanan’s Daughter. A tutto ciò va aggiunto un mucchio di altri documenti riguardanti Fitzgerald, nuove biografie e borse di studio, per non parlare della febbrile attività intitolata a Zelda Fitzgerald, di recente risuscitata come eroina femminista.
La definizione letteraria che meglio si adatta a questa profusione di interpretazioni nate dalla grande influenza di un romanzo e da un imponente sforzo di immaginazione è insensata sovrabbondanza.
Perché non mi irrita maggiormente? Forse perché il libro occupa un posto molto particolare nella cultura. Esiste un libro importante altrettanto, inserito in un canone e in un curriculum, il cui merito letterario e la cui probità morale continuino a essere messi in discussione con la stessa regolarità e passione? Non stiamo parlando di libri come Huckleberry Finn, impantanato in un dibattito confuso e intramontabile sul linguaggio razzista e la censura. Con Il grande Gatsby la domanda è più semplice e più stravagante: Fitzgerald sa scrivere? Il suo libro è un capolavoro – quello che T.S. Eliot chiamò «il primo passo avanti che la fiction americana abbia mai compiuto dai tempi di Henry James» – oppure, come dice Gore Vidal, è l’opera di uno scrittore che «a malapena sa scrivere»?
Come Nick si fa domande su Gatsby, così i lettori del suo romanzo si chiedono: quella che percepisco è superficialità oppure profondità prodigiosa? Come Daisy, il libro è irriso come grazioso e farraginoso. Come Nick, è accusato di essere complice passivo, o anche peggio, dello spettacolo che sembra criticare. Perfino gli ammiratori del libro ne discutono tanto: il libro è bello, ma… può dirsi bellissimo?
Bellissimo, ma senza la bellezza della fiducia in sé e la perfezione di una gemma intagliata. È la bellezza di un testo infinitamente aperto, instabile, strisciante. Nell’impalcatura della sua pulita struttura in tre atti e delle sue simmetrie meticolosamente disegnate, spunta un connubio indisciplinato di rigido moralismo e selvaggia ambivalenza, la sua infatuazione e il suo disprezzo per la ricchezza, la sua empatia che procede insieme al suo desiderio di punirne i personaggi.
Fitzgerald era orgoglioso di quello che aveva realizzato. «Penso che il mio romanzo si possa definire il miglior romanzo americano mai scritto» decantava. Il libro, invece, lasciò perplessi i recensori, e vendette poco. «Nessuna delle revisioni, perfino la più entusiastica, arriva vagamente vicina a capire di che cosa parli il libro» scrisse Fitzgerald al critico Edmund Wilson. Questa questione resta irrisolta. Il libro era stato trattato come un diversivo carino, in fondo poco serio. In un saggio del 1984 pubblicato sul Times, John Kenneth Galbraith ebbe sentore che Fitzgerald fosse interessato alla classe soltanto in modo superficiale. «Ad attirare il suo interesse – scrisse – sono le vite dei ricchi, i loro divertimenti, le loro agonie, la loro presunta follia. Le implicazioni sociali e politiche gli sfuggono, proprio come egli sfuggì loro nella sua stessa vita».
Questa interpretazione è stata completamente ribaltata. Entrambe le nuove edizioni fanno luce sulla bellezza del libro: a essere così avvincente è il modo di trattare il grottesco (Morris paragona i personaggi alle Real Housewives). Entrambe avanzano la tesi secondo cui il valore del libro sta tutto nella sua critica del capitalismo. Lee descrive Fitzgerald come «un sostenitore di Karl Marx» e scrive che Gatsby continua a essere «un romanzo moderno che indaga l’intreccio di gerarchia sociale, femminilità bianca, amore dell’uomo bianco e capitalismo sfrenato». Anche per Morris, non c’è un vero rapporto amoroso tra Gatsby e Daisy, bensì «capitalismo come emozione»: Gatsby incontra Daisy quando è un soldato squattrinato, capisce che lei ha bisogno di maggiore agiatezza e così cinque anni dopo ritorna, quasi come una sua parodia. Quindi, «la tragedia qui è la morte del cuore».
La prova c’è, nel modo complicato proprio di Fitzgerald, se guardiamo al testo e alla biografia. Egli era roso dall’amarezza e da un’invidia profonda nei confronti dei ricchi. Al suo agente un giorno scrisse: «Non sono mai stato capace di perdonare i ricchi per il fatto di essere ricchi e questo ha influenzato tutta la mia vita e le mie opere». Ma a scrivere ciò era quello stesso uomo che, da bambino, amava fingere di essere il figlio prediletto di un re medievale. Lo stesso uomo che si innamorò di Zelda perché sembrava una donna di lusso.
Chiacchiere, dicono i critici che vogliono meno ambiguità, meno luce della luna e posizioni morali più forti. Tranne quei critici che trovano oppressivo il moraleggiare e cercano la raffinatezza. Quali altre ondate di analisi sono in serbo per noi, con l’arrivo a fiumi di nuove interpretazioni? Come può un’unica storia alimentarle tutte?
Mentre siamo risospinti indietro, senza tregua, sempre in questo testo, diventa chiaro che aspirare all’ammirazione potrebbe essere una delle strade verso l’immortalità letteraria, ma aspirare a infinite interpretazioni potrebbe essere una scommessa con maggiori probabilità di riuscita. Dopotutto, è onorevole essere un personaggio secondario.
Traduzione di Anna Bissanti 
©2020, The New York Times