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 2021  gennaio 10 Domenica calendario

QQAN70 Intervista al designer Riccardo Falcinelli

QQAN70

Riccardo Falcinelli, il designer che insegna agli italiani distratti l’arte di guardare con attenzione, possiede la capacità di spiazzare l’interlocutore. Gli è riuscito egregiamente con alcuni amici agli Uffizi di Firenze, quando si è soffermato a fissare un ritratto minore del Quattrocento. «Ora Riccardo ci spiegherà che cosa vede di fondamentale in questo quadro», si è sbilanciato uno della comitiva. E lui, dopo un prolungato silenzio: «Questo tizio somiglia a Johnny Depp». La leggerezza, coniugata con una vertiginosa profondità di pensiero, ne fa uno degli scrittori più amati dal grande pubblico. Il suo Critica portatile al visual design, già tradotto in coreano, sta per uscire in giapponese. È la prima volta, dalla morte di Bruno Munari, che un saggio italiano di grafica finisce nelle librerie generaliste del Sol Levante. E Figure, uscito a ottobre per Einaudi, è destinato a bissare lo strepitoso successo di Cromorama, che si avvia a superare di slancio il traguardo delle 80.000 copie. 
Oltre a scriverli, Falcinelli progetta i libri per mestiere, a partire dalle copertine. Lo fa per Einaudi, Laterza, Zanichelli, Carocci, Harper Collins, Walt Disney. Ma realizza prodotti editoriali anche per i colossi farmaceutici, da Pfizer a Sanofi. «Per me le tele del Tiziano e i fumetti degli Avengers all’origine sono sullo stesso piano», teorizza senza rossori. 
La frase suona vagamente sacrilega. 
«Questi sono cascami idealistici e crociani. Preferisco la mentalità anglosassone: è tutto intrattenimento, bisogna solo distinguere fra cose fatte bene e cose fatte male. È la storia a decidere le gerarchie. Batman ha inventato un linguaggio che è più importante delle opere di alcuni pittori poco noti del Settecento». 
Le piace fare surf tra l’alto e il basso. 
«Retaggio familiare. Mia madre viene da una famiglia di medici e farmacisti, mio padre è figlio di un operaio. I nonni materni erano borghesi con scampoli di nobiltà, quelli paterni disprezzavano l’alterigia dei consuoceri. Con i secondi fingevo di non saper usare le posate, per non umiliarli. Da allora in certe distinzioni avverto la puzza delle differenze di classe. Per me l’unica valutazione riguarda la complessità: vi sono film molto più elaborati di un dipinto del Louvre». 
A che età cominciò a disegnare? 
«Mi cimentai con Heidi già a 5 anni». 
Oggi che strumento predilige? Matita, stilografica o pennarello Pantone? 
«Bic. La biro è la più grande invenzione degli ultimi 50 anni». 
Quando percepì per la prima volta la potenza delle figure? 
«Avrò avuto 10 anni. Ero in un cinema d’essai con la mamma. Davano un melodramma hollywoodiano. Una noia che non le dico. Mi misi a osservare le scenografie e notai che alcune erano dipinte». 
Un brutto impatto. 
«Il cinema è un’esperienza unica. Da bambino vidi anche Il paradiso può attendere, ma non ci capii nulla. Di Arancia meccanica ricordo invece il manifesto con la scritta “Vietato ai minori di 18 anni”, per me inspiegabile. Perché mai un film si poteva vedere e un altro no? I miei genitori mi hanno educato a guardare. È un’indole coltivata». 
Che oggetti ricorda della sua infanzia? 
«Elettrici. Chiedevo in regalo spine, prolunghe, lampadine. Imparai presto la differenza tra fili in serie e fili paralleli. Quante scosse! Mia madre dice che sono stato un figlio complicato e faticoso». 
Perché scrive che le immagini non hanno più nulla a che fare con la realtà? 
«Per un secolo abbiamo creduto che la fotografia fosse una restituzione del vero. Oggi le tecniche di manipolazione hanno fatto della realtà un pretesto. Sono stato ospite in sei-sette trasmissioni televisive. Nelle registrazioni mi sono visto con sei-sette facce diverse. Se il conduttore era una donna, apparivo ringiovanito di dieci anni. Effetti della correzione digitale, con filtri che cancellano le rughe e colorano l’incarnato». 
Come inizia la civiltà dell’immagine? 
«Con le incisioni nelle grotte preistoriche. Non sappiamo perché siano state fatte. L’unica certezza è che all’uomo non bastò più uccidere il bisonte per mangiarselo: sentì anche il bisogno di disegnarlo. Un’eccedenza del cervello». 
Oggi le sembra una civiltà degradata? 
«No, evoluta. Sono un ottimista». 
Sul web circola il video di una bimba di 12 mesi che tenta di cliccare sulle foto di una rivista cartacea. Non la angoscia? 
«Non sarebbe accaduto se in precedenza non avesse avuto fra le mani un tablet, che non è certo adatto a quell’età». 
Però suo figlio di 3 anni, davanti a una foto dell’Evangeliario di Teodolinda, voleva premere rubini e topazi incastonati nella copertina. Li credeva pulsanti. 
«Vero, ma oggi, a 4 anni, sa che queste tecnologie non sono il centro dell’universo. Gli chiedo: che cosa vuoi vedere? E lui si accontenta di una app del Lego, perché è patito di costruzioni. Le interfacce digitali vanno governate». 
Vale anche per la televisione? 
«Certo. Sono aspetti che studio tutti i giorni. Il primo film che ho mostrato a mio figlio è stato Ombre rosse. Durante un inseguimento con i cavalli, ha gridato: “Papà, i cani!”. Corretto. Erano gli unici quadrupedi a lui noti. La mente umana riporta ciò che vede a ciò che conosce, se n’era accorto già Aristotele». 
Voi Falcinelli siete strani. «Ho visto in vetrina una giacca a vento», dice sua moglie. Lei le chiede il colore. Risposta: «È 5 ciano, 90 giallo, 15 magenta». 
«Il dialogo avvenne mentre eravamo a tavola con una zia, che sospirò: “Io non ce l’ho mai avuta questa complicità con un uomo”. Ma è solo allenamento. Come quello del sarto che individua al tatto la percentuale di viscosa in un tessuto». 
Ed era il codice Rgb di quale colore? 
«Un giallo senape». 
Ma sua moglie non è una danzatrice? 
«Sì, ma ha studiato anche grafica». 
Mettere in mano a tutti lo smartphone ha svilito o innalzato l’immagine? 
«In generale il livello medio si è abbassato, tuttavia ora la gente capisce quanto sia complesso concepire foto belle». 
Perché davanti a uno scatto il nostro sguardo si fissa sul centro? 
«È un meccanismo biologico. Ci siamo evoluti per guardare davanti a noi. Invece la gazzella ha un angolo visuale di 350 gradi, dovendo scrutare intorno a sé per non finire sbranata dal leone». 
Un designer è solo un attento osservatore o anche un po’ uno scopofilo? 
«Dipende dal carattere. Io sono un collezionista di cose guardate. Le mie ossessioni si chiamano enciclopedia, biblioteca, Wunderkammer». 
Osserva molto anche le parole. 
«È design. Con il caffè del dopopranzo mi sono stati offerti dei dolcetti natalizi. Sulla confezione c’era scritto “mandorle lavorate a pietra”. Non ce l’ho né con l’industria né con i consumi, ma la soglia della stupidità non andrebbe mai oltrepassata. Bastava “lavorazione artigianale”. Secco, pulito, senza sbavature». 
Del «prodotto biologico» che mi dice? 
«Retorica. Non credo sia sinonimo di qualità. Non lo compro per la dicitura». 
Enzo Biagi mi diceva che un giornalista bravo si riconosce al volo se a tavola legge l’etichetta dell’acqua minerale. 
«Preferisco quella del vino». 
Sogna un mondo in bianco e nero? 
«No davvero. Il colore è la vita». 
I Dpcm sul Covid-19 hanno colorato l’Italia. Non bastava suddividere le regioni fra sicure, a rischio e pericolose? 
«È una segnaletica più immediata, simile a quella del semaforo e del meteo». 
Come mai in Germania sulle targhe automobilistiche lo zero è barrato mentre da noi si confonde con una «O»? 
«I tedeschi hanno una mentalità pratica. Per loro la grafica dev’essere strettamente funzionale. Da noi prevalgono gli aspetti espressivi, estetici». 
Si sente vicino a qualche designer del passato, come Marcello Nizzoli, Bruno Munari, Max Huber o Bob Noorda? 
«A Milton Glaser. Disegnava molto». 
Il logo «I love New York» di Glaser è un’icona, ma il restyling dell’«Europeo» fu un fiasco, per lo meno in edicola. 
«Succede. Da studente mi misi in testa di avvicinare i migliori graphic designer europei. Nel 1996 incontrai Munari e poi Lalla Romano. Oltre che scrittrice, era stata pittrice, tant’è che Elsa Morante, entrando nel suo studio tappezzato di figure e ritagli, esclamò: “Ah, il paradiso!”. In seguito, di grandissimi ne ho conosciuti altri, ma non tutti erano all’altezza della mitologia che li avvolgeva». 
Per quale motivo mi dice questo? 
«Un terzo di loro si sono rivelati straordinari. Ma un terzo erano meschini, moralmente miserrimi. Il restante terzo, magari persone perbene, avevano purtroppo un difetto di igiene, dovuto al malinteso novecentesco secondo cui non importa se gli artisti si lavano poco». 
Ha mai rifiutato un lavoro? 
«Più d’uno. Un miliardario italiano del ramo dolciumi, residente in Svizzera, voleva che disegnassi un logo per la figlia adolescente. Non m’interessava». 
Quando le bocciano una copertina soffre, si arrabbia o ne prepara un’altra? 
«Capita tutti i giorni. Ci resto male se sono convinto che l’idea fosse buona. Per Anna, il romanzo di Niccolò Ammaniti, sono arrivato a presentare 120 bozzetti». 
Ho letto che in casa fate il presepe. 
«Da sempre, benché i miei genitori siano atei. C’è un aspetto artistico: devi inventarti una scenografia, disporre i personaggi. Nessun risvolto mistico, anche se a mio figlio parlo di Gesù. Senza la spiritualità, diventa tutto molto arido». 
Ha confessato di essere ansioso. Da che cosa nasce questo stato d’animo? 
«Dalla paura della morte. Ci penso in continuazione fin da bambino. So di non avere abbastanza tempo per fare tutto ciò che vorrei. E mi dispiace. Mi servirebbero 50 anni di vita in più».