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 2021  gennaio 10 Domenica calendario

È la destra ad aver sconfitto Trump

La democrazia rappresentativa ha bisogno di una destra moderata, conservatrice, costituzionale. Per difendersi dall’attacco dell’estremismo populista, la democrazia ha bisogno di una forza liberale di massa che l’avvolga e lo contenga, fondata sugli interessi e la cultura della borghesia. In fin dei conti è questo che ci dice la crisi americana. Perfino lì dove è nata più di due secoli fa, la democrazia ha infatti mostrato in questi giorni a tutto il mondo che è «appesa a un filo», come ha scritto Le Monde.
N on servono grandi folle per marciare su un Palazzo, si dice che cinquecento uomini bene armati avrebbero fermato la Rivoluzione di Ottobre, per non parlare della marcia su Roma. Tutto quello che serve è un vuoto di potere, o un complice al potere. Ma se la destra liberale italiana al momento decisivo diede un passaggio al fascismo, quella americana, nonostante gli opportunismi e la codardia del suo establishment parlamentare, alla fine ha tenuto.
Ciò che ha sconfitto Trump sono stati infatti gli elettori moderati che hanno fatto da ago della bilancia, e l’hanno fatta pendere dalla parte del centrista Biden nelle presidenziali, e poi dalla parte dei democratici ai ballottaggi nella Georgia repubblicana, perché stanchi di avventura. Il politico che ha detto no al presidente, in cerca degli 11.789 voti che gli mancavano, è stato il repubblicano Brad Raffensperger, segretario di Stato della Georgia. Il giornale che dopo i fatti di Capitol Hill ha scritto «In nome di Dio, vattene», parafrasando il grido di un deputato inglese contro il suo primo ministro Chamberlain che aprì la strada al governo Churchill, è stato il conservatore Wall Street Journal. Fu un generale a rifiutarsi di usare l’esercito contro le folle che protestavano per le violenze razziali della polizia, come Trump chiedeva, e con lui il ministro della Difesa repubblicano Mark Esper, per questo poi licenziato dal presidente.
Se tutti questi fili non avessero tenuto non potremmo esser sicuri di stare qui a tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Nella destra americana è rimasta, flebile ma viva, una tradizione di senso dello Stato che ciascuno può apprezzare rivedendo su YouTube il discorso con cui John McCain, candidato repubblicano otto anni fa, ammise la sconfitta e dichiarò la sua ammirazione al vincitore Obama.
È cruciale, e prezioso, il ruolo che la destra conservatrice saprà avere nel ricostruire in America il Grand Old Party, e che è chiamata a svolgere anche in Europa, di fronte a un populismo ammaccato dalle sconfitte politiche ma nient’affatto domo, e forse anzi pronto a trovare nuova linfa nella drammaticità che ha assunto lo scontro (sono curioso di sapere per esempio che cosa pensano del bando di Twitter gli 88 milioni di follower del presidente). Ci sono cause concrete, economiche e culturali, che allontanano masse di «forgotten men», in Arizona come nella Germania orientale o nel Nord dell’Inghilterra, dalla democrazia, e la fanno apparire ingannevole e deludente. La spinta e la rabbia dell’ondata populista non si possono insomma domare solo con l’invocazione delle buone maniere o di un discorso social meno violento, se le forze democratiche non saranno in grado di cambiare e aggiornare la loro offerta politica.
Ci sono due modi per leggere la sorprendente ampiezza e aggressività di questo movimento globale di opinione. Il primo è quello scelto da una parte della sinistra anche in Italia, così affascinata da ogni movimento da individuare anche nel signore con le corna e il cappello di marmotta in testa che ha invaso Capitol Hill il volto del diseredato, della vittima della disuguaglianza, e che quindi propone una risposta sociale, di riforma del capitalismo. La seconda è la reazione liberale che vede invece nello Stato di diritto, nelle difesa delle istituzioni e nella qualità della mediazione politica tra gli interessi il baluardo dei regimi democratici. Perché ciò che davvero conta in democrazia non è mandare al potere l’uomo migliore, o il più popolare, ma assicurarsi un sistema che gli impedisca di abusare del potere, quando prima o poi proverà a farlo.
Una destra di questo tipo serve dunque anche in Italia. Nata nel 1994 intorno a Silvio Berlusconi, la nostra ha sofferto a lungo della sua origine personalistica e carismatica, e del conflitto di interessi che inevitabilmente la metteva in tensione con lo Stato di diritto. Ma, seppure con momenti di pericolo e grave tensione tra poteri (per esempio con il giudiziario), quella destra ha rappresentato per vent’anni uno dei due poli di una democrazia salda, di una collocazione europea certa, e di un’alternanza democratica salutare. Oggi che la destra moderata è ridotta al lumicino, rinchiusa com’è nel fortino elettorale di Forza Italia, è essenziale che venga rimpiazzata da qualcosa in grado di tenere il filo anche di fronte alle tentazioni di cavalcare l’onda populista. Questa destra nel Paese c’è. Nell’elettorato lombardo, per esempio, pur se al momento privo di leadership. In Veneto, dove ha anche una leadership. Nelle regioni e nelle città governate da esponenti della Lega o di Fratelli d’Italia, dove la politica di prossimità obbliga a lasciar perdere le ubbie ideologiche e a pensare all’essenziale. Ma abbiamo visto anche nella vicenda elettorale americana quanta fatica facciano i suoi capi a individuare e combattere a viso aperto i rischi autoritari che si celano dietro il discorso populista.
Tanto più riuscirà a convincersi che l’elettorato moderato non è stato inghiottito nel buco nero della crisi economica, e che al momento opportuno sa schierarsi contro l’avventura e il ribellismo, tanto più una nuova destra sarà garanzia di continuità democratica di un sistema che neanche da noi può considerarsi immune dal contagio trumpista.