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 2021  gennaio 09 Sabato calendario

7QQAFA10 Intervista a Julia Kristeva

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Suo padre gliene sconsigliò la lettura: «Troppo demoniaco per te». «Ovviamente gli ho disubbidito e l’ho letto», dice oggi Julia Kristeva, semiologa e psicoanalista bulgara naturalizzata francese. E a distanza di oltre cinquant’anni da quel divieto ne ha scritto un libro, Dostoevskij, da poco uscito in italiano per Donzelli con la traduzione dal francese e dal russo sui testi originali di Lila Grieco. Una raccolta di brani del grande scrittore russo tenuti insieme da una lunga introduzione che ne articola e allo stesso tempo ne ispira la selezione. C’è il Dostoevskij dei grandi romanzi, ma anche quello dei taccuini privati. E soprattutto c’è lo sguardo di Kristeva, che ne perfora i temi, li scarnifica, li isola, li decostruisce, in alcuni casi semplicemente raccogliendoli sotto una parola chiave – Sogno, Nazione, Idea, Epilessia, Bambini, Godimento – C’è la Russia e il femminismo, il corpo e lo spirito. E una preoccupazione, che Kristeva ripeterà più volte nel corso di questa conversazione: «L’Europa ha misconosciuto le sue radici ortodosse, è un peccato».
Julia Kristeva, lei descrive Dostoevskij come "scrittore polifonico": quali sono i fili principali che ha seguito nella scelta dei brani proposti nel libro?
«Dostoevskij non si lascia schematizzare facilmente, è difficile con lui parlare di "estratti", diciamo che ho tentato di seguire l’immagine tradizionale che si ha di lui per meglio mostrare la sua dirompenza. E allora ci sono i temi mitici, come quello in cui Sonja indovina il delitto di Raskolnikov, c’è il Grande Inquisitore, ma anche temi che si rifanno alla sua attività di pensatore, come quelli che guardano alla nazione russa, alle sue radici europee. E poi il tema del denaro, del rapporto tra uomo e Dio, il nichilismo, o questioni più personali come l’epilessia, il dubbio, il sogno, il gioco. Il mio tentativo è stato quello di non farne però delle etichette, perché come Proust non è la madeleine, Dostoevskij non è solo il delitto».
Quanto l’ha influenzata la psicoanalisi nella scelta?
«Non ho potuto non pensare alla lettura che ne aveva fatto Freud, il quale ammetteva di non amarlo particolarmente e lo considerava un nevrotico ossessionato dal parricidio. Ho cercato una visione più mia, oltre quella freudiana, ma soprattutto volevo far sentire la sua voce. La sua è una scrittura vocale, rapsodica, la cosa più importante è immergersi nelle sue frasi, che non sono mai mono-toniche, i personaggi parlano a se stessi prima che agli altri, sono polivalenti. Dostoevskij non si lascia ridurre nello spazio di un sms o di un’abbreviazione. Ciò che mi ha colpito nell’ultima traduzione francese, quella di André Markovicz, è che rispetto a quella precedente, più cartesiana se vogliamo, mi ha fatto cogliere un francese più naturale, quasi parlato, dissacrante. Ecco, volevo che il lettore sentisse Dostoevskij in questa maniera, come anticorpo alla banalizzazione del mondo interconnesso».
Dare significato alle pulsioni è uno dei leitmotiv di Dostoevskij. Cosa ha da dirci, oggi, di fronte alla grande confusione che regna sul tema della sessualità?
«Sono una fan dell’epoca dei lumi, e mi trovo molto a mio agio negli sviluppi attuali del dibattito sulla sessualità, che esplora l’interconnessione, la singolarità, la libertà di espressione per tutti. Direi che Dostoevskij non si ferma alla guerra identitaria, lo dimostrano i testi sull’omoerotismo tra adolescenti, l’esplorazione della tenerezza, la sofferenza legata alla delusione fisica. Non è da Dostoevskij che ci si deve aspettare un rimedio alla complessità sessuale, non è un uomo da ricette, da sistemi. Però una proposta, implicitamente, la avanza, ed è quella della vastità dell’esperienza interiore rispetto all’angustia delle esperienze contrapposte. C’è una contestazione permanente, a livello di identità sessuale, che si ritrova in tutti i suoi personaggi».
Secondo lei, il movimento #metoo è un elemento necessario nel femminismo o, come dicono alcuni, l’inizio di una stagione "fondamentalista" che aumenterà la distanza e la comprensione tra i sessi?
«Sono favorevole al fatto che le donne esprimano le loro sofferenze e reagiscano al patriarcato che le vuole chiuse in casa, oppresse, schiavizzate, ma penso che occorra essere polifonici, in questo senso Dostoevskij indica una strada interessante, che non ha a che fare né con la guerra tra i sessi né con il fondamentalismo, ma con l’esperienza del nominare la sofferenza, e di sublimarla nella parola creativa».
Che tipo di "secondo sesso" costruisce Dostoevskij nei suoi romanzi?
«Dostoevskij costruisce decostruendo, non ha una dottrina, o meglio, cambia continuamente dottrina, quindi il secondo sesso non è un processo ideologico – è inutile andare in cerca del femminismo nei geni del passato - ma il femminile è presente nelle sue figure in modo caleidoscopico: c’è la sottomissione di Sonja, c’è l’accento sull’omo-erotismo femminile in Aglaja e Nastas’ja Filippovna, c’è l’oggetto del desiderio incarnato in Grusen’ka, capace di svelare agli uomini la loro stessa repressione sessuale, una dominatrice fiera e sofferente. Ciascuno di questi tratti è disperso nei suoi personaggi e mostra un Dostoevskij attratto dal femminino in sé. Così come Flaubert diceva "Madame Bovary c’est moi", ecco Dostoevskij è in tutte le sue donne.
Ce n’è una che vince sulle altre?
La madre. Trovo che in Dostoevskij ci sia soprattutto l’adorazione della madre, assimilata alla potenza della fede ortodossa. Pensiamo alle icone, che vengono mostrate per chiamare i fedeli a baciarle: ci vedo la stessa passione fusionale dell’abbraccio materno, in Dostoevskij la risonanza del culto per la madre tipico dell’ortodossia, più forte ancora che in quello cattolico, è predominante. La madre dominatrice, la madre depressa, la madre morta, la madre immensa, la Madre Russia…
L’uomo dostoevskiano è ossessionato dal corpo, sia quello su cui scatenarsi (in "Delitto e castigo"), sia quello omoerotico de "L’idiota", o aspirante alla santità dei "Fratelli Karamazov". Cosa ci dice Dostoevskij oggi sull’esperienza della corporeità?
«Molto spesso i corpi spariscono e i personaggi parlano. Se si legge il testo russo si ha l’impressione di persone che si assottigliano sotto le parole, come delle icone, sono dei tratti, non le figure tornite del Rinascimento, piuttosto degli occhi, un sorriso, un viso, dei capelli, delle pose plastiche e bloccate. Il corpo sparisce, al suo posto emergono immagini iconiche o, in alternativa, paesaggi. Pensiamo a Mishkin, non abbiamo un’immagine di lui, si perde nella nebbia della città e attraverso la nebbia percepisce se stesso. Il corpo di Dostoevskij è percepito attraverso il linguaggio. Il fisico è "linguisticizzato"».
In che senso secondo lei Dostoevskij teorizza l’impossibilità della coppia?
«Non penso che teorizzi alcunché, semplicemente l’impossibilità della coppia emerge in tutta la sua opera. Allo stesso tempo è attratto dalla tensione permanente dell’amore, e la svolge in molte chiavi, non solo quella della sofferenza, ma anche quella carnevalesca e grottesca di Grusen’ka e Karamazov. Se guardiamo alla sua vicenda personale, Dostoevskij non era un libertino, è interessante che il suo primo amore sia una brillante femminista come Apollinaria Suslova, che però nelle sue memorie si lamenta di lui, della sua violenza verbale, delle sue difficoltà sessuali... Nondimeno la sua vita sentimentale finisce al fianco di Anna Grigor’evna, che sopportava le sue crisi, pagava i suoi debiti, lo aiutava nella scrittura dei testi. Non certo quello che oggi definiremmo una coppia moderna, ma un luogo di armonia, per Dostoevskij uno spazio propizio».
C’è corporeità, ma c’è anche una tremenda tensione spirituale nell’opera dostoevskijana. Dove si incontrano secondo lei?
«Nella parola, la sua religione è la scrittura, in cui infonde sì la sofferenza ma anche la gioia, una gioia profonda e sfrenata. L’inondazione del linguaggio è la sua vera follia, così come la spiritualità è la sua religione. Educato alla fede ortodossa, Dostoevskij vi ritorna dopo aver abbracciato gli ideali della Rivoluzione Francese, ritrovandovi il culto del popolo russo, un popolo teoforo, portatore di Dio. In questo senso va letto anche il suo antisemitismo, che è sempre vivace, ridanciano, quasi vedesse negli ebrei i rivali degli ortodossi nella primazia religiosa, quasi ne fosse geloso. La letteratura critica insiste molto sull’impianto teologico ortodosso nell’opera dostoevskijana, anche Camus lo ha fatto, sebbene in una versione più esistenzialista. A me sembra che Dostoevskij sia più attaccato alle radici della gnosi, della mistica ebraica, dove non c’è dualità tra bene e male, ma espansione e contrazione, allargamento e compressione».
Suo padre le sconsigliò di leggere Dostoevskij, lei lo consiglierebbe a un adolescente di oggi?
«Mio padre era un ortodosso osservante, cantava in chiesa, ma nella Bulgaria degli Anni Sessanta non voleva che le sue figlie fossero considerate oscurantiste e nemiche del popolo, quindi mi sconsigliò di leggere Dostoevskij, che lui tra l’altro compulsava in segreto, dicendo che era troppo distruttivo, demoniaco, non per me. Naturalmente gli ho disobbedito e l’ho letto. E mi spiace che oggi sia un autore del tutto assente dalla formazione e dall’insegnamento scolastico. È un problema più generale del resto, l’Europa tende a misconoscere le sue radici ortodosse, a torto. Un genio come Dostoevskij dovrebbe trovare un posto d’eccezione nell’insegnamento scolastico, forse questa mia antologia può essere utile: Dostoevskij è un vaccino anche per gli adolescenti di oggi. Insegnerebbe agli internauti solitari, che in questa epoca di pandemia stanno sperimentando la solitudine e la depressione, che l’esperienza interiore esiste, ed è un antidoto. Il clic senza profondità non ha volume, ecco, Dostoevskij vi porta il volume».
Qual è oggi la sua relazione con la Russia?
«Nella mia infanzia la lingua russa non era obbligatoria ma mio padre la parlava, eravamo affascinati dalla dissidenza russa, devo a persone come Brodskij spiegazioni profonde sul senso della metafora. Ho con la Russia una relazione di grande prossimità, di amore e di riconoscenza, la Russia ha liberato i bulgari dall’occupazione turca. In noi c’era allo stesso tempo fascinazione e voglia di differenziarci, di salvaguardare la nostra nazionalità – l’alfabeto slavo è stato inventato da due fratelli bulgari, mi piace sempre ricordarlo. Adesso sono una fanatica dell’Europa, e anche se non penso come Dostoevskij che i russi siano i più grandi europei del mondo – anche se è vero che leggono Shakespeare meglio dei francesi - penso che l’Europa debba guardare alla Russia come un partner privilegiato, sul piano delle idee prima che su altro. Ripeto, è un peccato che l’Europa misconosca le sue radici ortodosse, non solo quelle dell’ortodossia russa, ma anche bulgara e greca. L’abisso tra l’Europa cattolico-protestante e quella ortodossa dovrebbe essere colmato, e la paura della Russia – che posso anche capire – non può essere gestita dall’ignoranza, o dal rifiuto».