Tuttolibri, 9 gennaio 2021
12QQAFA11 Don Winslow passa il Natale a Manhattan
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Per me è una questione di punti di vista.
Prendiamo l’inizio di Ultima notte a Manhattan. Parte con un tizio che si chiama Walter, che cita Shakespeare e lavora per la Cia nel pieno della Guerra Fredda. Recluta agenti doppi, li adula, li seduce, li vizia e poi li incastra con eleganza ma senza pietà, perché così è la vita e il mondo diviso in due blocchi.
Ma Walter comincia subito a parlare di un collega che si chiama Morrison, e così, con quella meravigliosa fluidità a cui un grande narratore come Don Winslow ci ha fantasticamente abituato, in poche righe scivoli su un altro punto di vista e vai avanti, convinto che la storia sia diventata la sua.
Bello, Morrison, donnaiolo con problemi di prestazioni sessuali, spia anche lui nella Stoccolma della fine degli anni ’50, ma poi il punto di vista torna su Walter, che se lo prende e se lo tiene saldamente.
Allora arriva il Vecchio, che la leggenda della Cia vuole supervisore del serpente che spinse Eva a prendere la mela, arriva Anne, minuta e sensualissima cantante di jazz nei club esistenzialisti di Manhattan, arriva uno scrittore alcolizzato e molesto, e arriva il giovane e ambizioso senatore Keneally, sicuro futuro presidente, così simile a Kennedy e non soltanto nel nome. Soprattutto arrivano sua moglie Madeleine, che se gli Stati Uniti non fossero una democrazia parlamentare sarebbe una principessa, quasi come nelle favole, e una brillante bionda scandinava dal seno prosperoso.
Prima o poi succede qualcosa di brutto a qualcuno di loro, e morissi in questo momento (si fa per dire) se racconterò cosa e a chi. Per arrivarci Winslow si prende il suo tempo, tutto quello che gli serve e che ci vuole, intrecciando destini e caratteri, paranoie e coincidenze, nell’atmosfera ovattata e inquietante, elegante e frenetica, appunto, di un Natale a Manhattan.
Sospetti e segreti che crescono fino a scoppiare in questo noir che sembra un romanzo di spionaggio e si muove come un hard boiled, perché i meccanismi letali del potere, con le nobiltà e le miserie del fattore umano, restano gli stessi, sia prima, alle frontiere della Guerra Fredda, che ora a New York, dove un investigatore privato ex spia respira l’aria fredda di neve con la gioia, vera gioia, di trovarsi «a mezzogiorno della vigilia di Natale sulla Quinta strada», che significa «nel cuore del giorno, nel cuore della città, nel cuore del mondo».
Bene, bravo, respirati Manhattan. Vedrai, vedrai.
E noi con lui, perché la narrazione e lo stile di Don Winslow - che qui leggiamo nella fedele traduzione di Alfredo Colitto - sono cose che prendono e non mollano. Perché è bravo, il nostro Winslow - personalmente è uno dei miei preferiti - padrone di un mestiere così solido che fa quello che deve fare il mestiere quando è solido: non si vede. Questione di punti di vista: segui quello di una fluida scorrevolezza e non ti accorgi di tutto quello che ci sta dietro. Costruzione della storia, scelta delle parole e del ritmo con cui legarle, una ricerca minuziosa che deriva anche dall’essere stato lui stesso, a suo tempo, investigatore privato e non solo, l’immensa prateria di caccia di suggestioni e informazioni che ti si apre quando diventi uno scrittore famoso noto per essere particolarmente attento alle dinamiche politiche e sociali del crimine. Tutto lì, che scivola senza intoppi.
Sono andato a rivedermi gli incipit di altri suoi romanzi, giusto alcuni, presi a caso dallo scaffale degli americani, lettere T-W.
Il potere del cane, per esempio, il primo di quella trilogia che racconta - cioè allo stesso tempo informa, emoziona e spiega - quello che gira attorno a cartelli, droga e confini, a sud degli Stati Uniti e nel mondo: libri di storia, oltre che reportage giornalistici e grandi romanzi, che non per nulla hanno nell’esergo una lunga lista di giornalisti messicani uccisi.
«Il neonato è morto nelle braccia della madre».
Così duro e così spiazzante che non puoi non leggere le parole seguenti: «Art Keller deduce dalla posizione dei cadaveri…», eccolo qua il punto di vista, che non ti molla più. E così negli altri due, «A Keller sembra di udire il pianto di un neonato» (Il cartello), e «Keller vede nello stesso momento il bambino e il riflesso del mirino» (Il confine). Immagini che tornano, a significare che ogni parola, per Winslow, anche a distanza di tempo, fa parte di un progetto di ampio respiro in cui scorrevole non significa soltanto semplice.
Le belve, dove l’ironia si fonde nella violenza di una storia di droga in quello che per un po’ è stato chiamato, a torto o ragione, genere pulp: «Vaffanculo». I re del mondo, con gli stessi personaggi, da noi uscito prima anche se scritto dopo: «Vaffanculo. A me». Che non è soltanto un gioco fatto con le parole, è un progetto che torna.
Come un progetto di narrazione, una vera e propria dichiarazione di intenti, sta già nelle prime parole di China girl, anche lui parte di una serie con uno stesso protagonista, Neal Carey, che ha a che fare con una Cina che Winslow conosce per averla frequentata in una delle sue tante vite precedenti: «Prologo. Papà bussa alla porta», che è il titolo del capitolo. Inizio del capitolo: «Non avrebbe dovuto aprire». E infatti è così.
Oppure Missing. New York: «Il mattino a Manhattan arrivò con il clangore metallico e il sibilo idraulico di un camion della spazzatura che portava via i peccati della notte. O almeno ci provava». Puro hard boiled, dove al posto della California di Hammett e Chandler c’è New York.
E infatti, ecco l’incipit di quest’ultima uscita, la spia che diventa investigatore privato e finisce in quel guaio complesso e verissimo alla vigilia di Natale: «Walter Writers non ci stava male, alla Cia. Era solo che gli mancava New York».
Ci sono tante cose nei romanzi di Don Winslow, e tutte al posto giusto. Punti di vista che si rincorrono e si scambiano.
Ecco, dire che Ultima notte a Manhattan mette insieme il James Ellroy di American Tabloid, l’appena compianto John Le Carrè de La talpa, e anche il Raymond Chandler de Il grande sonno, è inopportuno soltanto perché anche Don Winslow è un grande classico alla pari degli altri.