Tuttolibri, 9 gennaio 2021
1QQAN40 Intervista a Sergio Staino
1QQAN40
Per una volta Bobo scrive. Racconta senza ricorrere alle vignette, in un viaggio politico e di affetti attraverso i suoi primi 80 anni. La sua Storia sentimentale del Pci è in fondo quella di tanti militanti di quello che fu per decenni il principale partito dell’opposizione italiana. È anche la storia di un vignettista non ortodosso. Un racconto urticante e non nostalgico come al contrario farebbe temere il suo titolo. Un modo per fare il ritratto e dare la pagella ai tanti personaggi pubblici incontrati in molti anni di carriera.
Staino, satira e comunismo: un ossimoro?
«Certamente un ossimoro. Almeno nel comunismo realizzato, quello leninista. Del resto tutte le società fondamentaliste sono incompatibili con la satira. La satira la si accetta solo come propaganda politica contro l’avversario. Per la satira sana, quella autentica che nasce dal dubbio, non c’è spazio».
Detta da chi ha disegnato per anni sulle pagine dell’Unità può sembrare una contraddizione...
«E invece, in fondo, è una conferma. All’Unità sono arrivato relativamente tardi, quando le impostazioni originarie del comunismo erano di fatto venute meno. Al punto che sul giornale ufficiale del partito si potevano disegnare vignette che prendevano in giro il segretario».
Com’è nata l’idea del controcanto sul giornale del Pci?
«È partita come una sfida. L’allora direttore, Emanuele Macaluso, mi aveva proposto di collaborare. Ero molto titubante, anzi contrario».
Per quale motivo?
«Arrivavo dal partito maoista, il Pci (m-l). Per noi Macaluso, come gli altri miglioristi era l’emblema del cedimento alla socialdemocrazia, lo accusavamo di essere troppo debole con i socialisti».
Come fece Macaluso a convincerla?
«Io gli dissi che non avrebbe mai avuto il coraggio di pubblicare le mie vignette. E per dimostrarglielo ne mandai una decina una più indigesta dell’altra per l’ortodossia del Pci. Così, pensavo, ci togliamo il pensiero e non ne faremo nulla».
E invece?
«Sorprendendomi lui disse di sì. Accettò di avere sul giornale qualcuno che smontava la chiesa del Pci pezzo per pezzo. Perché, in fondo, Bobo metteva in chiaro i dubbi di molti iscritti al partito».
Il migliorista si mostrò migliore di quel che Staino pensava?
«Macaluso è stato il miglior direttore dell’Unità con cui ho avuto a che fare. Perché coltivava il dubbio. Su di lui e sulla posizione dei miglioristi la mia autocritica è totale. Penso che la loro posizione fosse l’unica possibile per ricucire la frattura nata nel 1921 con il Psi e far nascere in Italia un partito laburista».
Beh, una bella autocritica per chi aveva posizioni a sinistra del partito comunista cinese, come scherzava Paolo Villaggio...
«Sì, politicamente ho fatto una strada molto lunga. Da giovane ero affascinato dal comunismo della generazione di mio nonno. Era un misto di anarchia e riformismo. Mi colpì il giorno che teorizzò l’alternanza permanente: "Quando vinceremo le elezioni, io andrò all’opposizione. Ci vorrà pur qualcuno che critica il governo’’. Il suo era un comunismo ribelle e pragmatico, nato negli anni della Resistenza. Aveva poco a che fare con Lenin, l’Urss e l’ala filosovietica del partito, con gli estremismi di Secchia e del gruppo di Radio Praga».
Perché nel Pci pochi denunciarono il regime sovietico? Non se ne accorsero? Non sapevano?
«Non credo. Almeno a livello di vertice molti conoscevano quella situazione. Penso che tacquero per opportunismo, per non turbare la base elettorale».
E Bobo? Quando si disilluse?
«Nel 1967, durante un viaggio in Urss. Ci rendemmo conto che qualsiasi domanda politica facessimo ai nostri interlocutori cambiavano rapidamente discorso e parlavano delle bellezze dell’Italia».
Anche con l’Albania di Hoxha andò in quel modo?
«I viaggi furono importanti ma decisivo fu il moralismo bacchettone del partito maoista. Mi stavo separando da mia moglie e avevo appena avuto un figlio con la mia nuova compagna. Una situazione quasi illegale per lo stato italiano di allora, inconcepibile per il partito maoista. Erano peggio dei preti».
Macaluso il miglior direttore. Il peggiore?
«Senza alcun dubbio D’Alema. E non solo come direttore dell’Unità, proprio come uomo politico. Non ha il senso dell’umorismo (e infatti da segretario si oppose alla direzione di Michele Serra) è afflitto da una megalomania patologica, ha difficoltà a comprendere la realtà politica».
Addirittura...
«Credeva di fare un risultato a due cifre in Puglia: non è andato oltre il 3 per cento. Si crede il più intelligente. Diciamolo, mi ricorda un altro».
Chi altri può ricordare?
«Ma naturalmente Renzi. Del resto non ci sarebbe l’uno se prima non ci fosse stato l’altro. Solo che Renzi è più cinico».
Bobo non ha mai avuto il dubbio di essere funzionale al Pci e al sistema che criticava? Una specie di lusso che ci si permette per salvare la baracca. Un "ruttino socialdemocratico" come diceva Dario Fo?
«Ah non penso proprio. In quel momento c’era poco da difendere. La mia era davvero una satira senza briglie, che faceva male. Il giorno dopo Tienanmen disegnai su Tango la vignetta con la bambina insanguinata e la scritta "Bel lavoro compagno Deng’’. Non credo che fosse satira di comodo».
Qual è stato il suo rapporto con Dario Fo?
«È stato strettissimo. Lavoravamo bene insieme. Fino a quando non è stato attratto dal fanatismo populista. Lui come altri compagni a sinistra, penso, ad esempio, a Stefano Rodotà. Quanti ne ho visti passare di colpo dal sogno del sol dell’avvenire a quello delle manette. Tutti a inseguire i Grillo, i Travaglio».
Beh, Travaglio è di destra, come lui stesso ha sempre riconosciuto. Viene da lì, non ha molto a che fare con la storia della sinistra...
«Infatti, ma parecchi miei compagni lo hanno creduto. Ho visto paurosi sbandamenti, gente che improvvisamente si è messa a inseguire il giustizialismo dei magistrati alla Davigo».
Quando è cominciata questa deriva?
«La sera del Raphael, quando andammo davanti all’albergo di Craxi a tirare le monetine. Una scena che piacque molto, ricordo, a Nanni Moretti. Ecco, lì iniziò la deriva».
Prosegue ancora oggi?
«Certamente. Il populismo grillino è dentro il Pd. Quando vedo Zingaretti dire sì al taglio dei parlamentari penso alla scarsa qualità politica dei nostri dirigenti e credo che siamo arrivati al livello più basso da molto tempo».
La critica ai dirigenti non è nuovissima. Somiglia al grido di Nanni Moretti dal palco di piazza Navona...
«Ma Moretti criticava da fuori. È più difficile dire certe cose dentro il partito».
È stato mai censurato?
«Ah, no di certo. Ci hanno provato in tanti ma senza successo. Ci stava riuscendo Walter Veltroni il giorno che mi chiese di non pubblicare una certa vignetta. Stavo facendone una nuova quando mi richiamò: "Ho sbagliato a cercare di censurarti. Scusa’’».
Un signore. È sempre andata così?
«No certamente. Ricordo l’aggressione di Natta al congresso di Rimini, quello in cui si decise di cambiare nome al Pci. Venne da me a dire. "Se siamo arrivati a questo punto è per quel tuo maledetto Tango’’».
Aveva ragione?
«Sul momento gli risposi che mi dava troppa importanza. In fondo Tango era solo un inserto satirico. Poi, ripensandoci, credo che le mie vignette un contributo possono averlo dato».
Come resisteva Bobo alle richieste di censura dei dirigenti del Pci?
«Avevo un’arma formidabile: lo scandalo che sarebbe nato dentro e fuori il partito se mai si fosse saputo che avevo dovuto cambiare una vignetta. E ha sempre funzionato».
Bobo compie 80 anni. Che cosa resta oggi del comunismo?
«Spero nulla. Almeno del comunismo realizzato, quello che abbiamo conosciuto in Urss e in Cina, in Albania e a Cuba. Non si è salvato nessuno e non ne sento la mancanza. Certo umanamente fa male sapere che per quel comunismo sono morti tanti compagni. Ma il comunismo era la teoria della dittatura del proletariato, era quella che differenziava i comunisti dai socialisti. E io sono per l’alternanza democratica, non per le dittature».
Arrivati a una certa età si tende a perdonare. Lei si è ricreduto presto su Macaluso, che oggi elogia. Ci sarà un giorno in cui riabiliterà D’Alema?
«Ah, ah, non credo proprio. Sono quasi certo che morirò prima».