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 2021  gennaio 10 Domenica calendario

Cento anni fa la prima di The Kid di Chaplin

Un secolo fa, il 16 gennaio 1921, a Chicago, e poi cinque giorni dopo a New York, veniva proiettato The Kid, il primo lungometraggio scritto, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin. Il film sarebbe poi approdato nei cinema di tutto il mondo, ovunque riscuotendo un enorme successo, di critica e di pubblico. In Italia, la prima rappresentazione risale al 26 novembre 1923, quando il film viene proposto con un titolo, Il monello, non esattamente coincidente con quello originale. La pellicola sarà più volte rieditata, con alcune modifiche, non sempre condivise dall’autore. La versione definitiva, realizzata cinquant’anni dopo il debutto, si segnala per il taglio di tre scene, per un totale di circa 15 minuti (portando la durata complessiva a 53 minuti), e soprattutto per l’aggiunta di musiche composte dallo stesso Chaplin.
Considerata un capolavoro assoluto, l’opera si avvale anche della straordinaria interpretazione di Jackie Coogan nel ruolo del piccolo protagonista. Si racconta che Chaplin avesse avuto modo di saggiarne le capacità assistendo alla rappresentazione di un vaudevilleall’Orpheum Theatre di Los Angeles. Sull’onda del grande successo ottenuto interpretando il ruolo del bambino abbandonato dalla madre e amorevolmente allevato dal Vagabondo, Jackie comparirà in numerosi altri film, raggiungendo l’apice della popolarità molti anni dopo, quando interpreterà lo zio Fester nel telefilm La famiglia Addams.
Fonti accreditate riferiscono che il rapporto affettivo che si instaurò sulla scena fra i due protagonisti, a dispetto della differenza di età, aveva condotto a un’intensa frequentazione anche al di fuori del set. Durante le prime settimane di lavorazione, pressoché ogni domenica, Chaplin accompagnava Jackie al parco dei divertimenti. Il consolidamento di questo legame era anche la conseguenza di alcune vicissitudini patite da Chaplin, con un’infanzia segnata dall’assenza del padre, dalla malattia mentale della madre e dai lunghi periodi trascorsi tra orfanotrofi e collegi. Inoltre, proprio durante la lavorazione del film, muore il primo figlio di appena tre giorni, venuto alla luce con gravi deformità. In una certa misura, si può motivatamente affermare che, nel rapporto con il bambino di sei anni, l’autore inglese cercasse una sorta di risarcimento per le frustranti esperienze subite, prima come figlio e poi come padre.
A rendere ulteriormente complicata la realizzazione del film, durata ben diciotto mesi, interviene anche il burrascoso divorzio dalla prima moglie, Mildred Harris, accompagnato dalla minaccia del sequestro del film.

«A picture with a smile – and perhaps, a tear»: la didascalia che compare in apertura non è una semplice sintesi del film, ma coincide con una dichiarazione di poetica che riguarderà nel tempo l’intera opera di Chaplin. Il cinema dell’autore inglese si caratterizza peculiarmente per la difficile, quanto riuscita, compresenza del sorriso e, «forse», della lacrima. Con un’avvertenza fondamentale. Non si tratta, come invece si è soliti ripetere, di definire un’appartenenza a un «genere», quasi che il lavoro su un film, come su altre opere dell’ingegno, possa dirsi compiuto nel momento in cui si sia «classificato» un prodotto, apponendovi un’etichetta. Né si tratta di accontentarsi di una strategia a prima vista migliore, quale sarebbe quella di riconoscere nel film (come è stato affermato) «un ibrido tra farsa e melodramma».
Il problema che quest’opera davvero mirabile pone è appena meno banale, rispetto all’armamentario categoriale abitualmente messo in campo da una critica spesso negligente. Si potrebbe formularlo attraverso un interrogativo: in quale altro modo è possibile «imitare» la realtà, se non appunto combinando un sorriso e una lacrima? Se, come sottolinea Aristotele, l’arte è produzione di forme che hanno il loro fondamento nella praxis, e cioè nell’agire, come si può immaginare che un solo registro espressivo, sia in grado di rappresentare compiutamente ciò che per sua natura è costitutivamente irriducibile a un approccio univoco?
La problematica ora indicata, già di per sé rilevante in termini generali, assume poi una determinazione più specifica, quando si entra più direttamente nel merito del capolavoro chapliniano e dei temi che lo percorrono.

Colpisce anzitutto una sorta di originale reinterpretazione della tematica del doppio, dove i due personaggi compaiono come figure di una stessa identità – l’uno essendo la proiezione «in grande» dell’altro. Il «bambino» (e non «il monello», come invece è stato abusivamente tradotto in italiano il titolo originale) ricalca in dimensioni ridotte le caratteristiche principali della figura del vagabondo, il quale a sua volta si «riconosce» nel bambino, come è tra l’altro confermato dalle trasparenti allusioni autobiografiche presenti nel film.
Il culmine di questo processo di duplicazione speculare si raggiunge nella sequenza che vede l’alternarsi degli incontri di boxe sostenuti dai due protagonisti, nel conflitto che li vede impegnati rispettivamente con il piccolo ladruncolo e con suo fratello maggiore.
Senza alcuna enfasi, ma proprio per questo con grande efficacia, un secondo filone tematico è riconoscibile nel film, anche come preannuncio degli ulteriori sviluppi che ricorreranno nelle opere successive, nelle quali quello che si potrebbe rozzamente definire come impegno civile è più evidente. Le autorità costituite, i rappresentanti della legge, compaiono come arcigni tutori di un ordine costruito sulla perpetuazione delle disuguaglianze e sulla riproduzione del disagio sociale. Si tratti del poliziotto di quartiere, del medico, del guardiano dell’asilo notturno, del direttore dell’orfanotrofio, i rappresentanti del potere costituito agiscono in realtà come strumenti di sopraffazione, refrattari a ogni richiamo di solidarietà umana, nella migliore delle ipotesi custodi del rispetto formalistico di regole astratte. Dove allora emerge una sia pur tacita contrapposizione fra l’ossequio alla norma che è proprio del diritto e l’obbedienza a quella «misura invisibile che regge tutte le cose», di cui scrive Pindaro, riferendosi specificamente alla giustizia.
Nel mondo descritto nel film, gli innocenti sono costretti a pratiche illegali per riuscire a sopravvivere, mentre il trionfo finale della giustizia, con il riconoscimento del bambino da parte della madre che lo aveva abbandonato, è risolto con un fugacissimo accenno conclusivo, comunque lontano da ogni consolatorio happy end.

Ma il tema di gran lunga più importante e originale del film, per lo più ignorato nei commenti che si sono succeduti nel tempo, è quello che riguarda la relazione affettiva che lega il vagabondo al bambino, la cui forza è tale da risultare vittoriosa, rispetto ad avversità, prepotenze e soprusi. In altra forma, e con differenti finalità, ricompare qui lo scarto fra diritto e giustizia. Pur non essendo legato al bambino da alcun vincolo di genitorialità «naturale», il vagabondo è non solo padre, ma anche madre, del kid, per via della netta superiorità dell’amore, rispetto a ogni forma di paternità anagrafica. Nessun «diritto» formale alla tutela del piccolo può essere accampato dal protagonista, se non quello che scaturisce da un amore intensissimo e incondizionato, capace di resistere a ogni sopraffazione.
La struggente parabola narrata da Chaplin – «con un sorriso e forse una lacrima» – ci ricorda quanta potenza incoercibile possa essere sprigionata dall’amore che unisca due persone, indipendentemente da ogni differenza di età, sesso o appartenenza sociale.