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 2021  gennaio 10 Domenica calendario

12QQAFM15 Intervista a Jonathan Lethem

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Esattamente tre anni fa, nella prima settimana del 2018, Jonathan Lethem attraversava al volante della sua auto gli Stati Uniti: dal paesino del Maine, dove ha una casa, alla California, dove insegna Scrittura creativa al Pomona College. Mentre guidava, ascoltava in versione audiobook il romanzo Zero K di Don DeLillo. Molto più comodo del viaggio in autostop che a vent’anni lo portò da Denver in Colorado a Berkeley in California solcando il deserto e i monti, con soli 40 dollari in tasca (un’avventura che poi avrebbe definito «una delle cose più stupide e più memorabili che abbia fatto»). Ma anche quest’ultima traversata è stata a suo modo epica perché – racconta a «la Lettura» lo scrittore – «mentre la mia auto usciva dal Texas per entrare nel deserto del New Mexico, immaginai, come in una visione o in un sogno, che il paesino del Maine che mi ero lasciato alle spalle e il mondo intero fosse immerso in una realtà post-apocalittica, o meglio una situazione post-collasso tecnologico, in cui tutto si è fermato». 
È in un paesino del Maine che Lethem ha ambientato The Arrest («L’arresto»), il suo nuovo romanzo che uscirà in Italia a maggio per La nave di Teseo. I sopravvissuti vivono in una comunità agricola hippie, che fa pensare a quella (urbana tuttavia) in cui Lethem è cresciuto negli anni Sessanta, con la madre attivista politica e il padre artista: una comune hippie a Brooklyn. L’apocalisse del suo romanzo è «gentile»: non è una pandemia né una guerra nucleare che pone fine al mondo come oggi lo conosciamo, ma semplicemente la tecnologia s’arresta, smette improvvisamente di funzionare. 
Il «cattivo» di questa storia – se tale lo si può considerare – è Todbaum, un produttore di Hollywood che si è impadronito dell’unica automobile ancora funzionante al mondo: una «supercar» potenziata da un reattore nucleare interno. Se ne serve per viaggiare dalla California al Maine, il percorso inverso a quello che ha fatto lei tre anni fa. E arriva con un carico di storie, ma quando le racconta allo stesso tempo ammalia e avvelena il suo pubblico. 
«Todbaum è quello che si può definire un frenemy — né un amico, friend, né un nemico, enemy, ma entrambe le cose – della civiltà. Porta con sé le immagini, le ideologie, i miti e i sogni, di cui ci ubriachiamo senza riuscire a smettere. Rappresenta Hollywood».
Todbaum è anche la ragione della distanza che si è creata tra i due protagonisti – un fratello e una sorella – i quali però si sono ritrovati insieme dopo «l’arresto». La buona notizia è che, alla fine del mondo, il contratto sociale è ancora possibile. 
«Molti miei libri contengono questo segreto ottimismo. Mi affascina e mi commuove la formazione di famiglie temporanee, di alleanze, associazioni, affiliazioni, anche se magari non destinate a durare. L’ho visto e ne ho scritto crescendo tra i ragazzi nelle strade di Brooklyn negli anni Settanta, come lo vedo nel mondo surreale e frantumato del romanzo di fantascienza, in cui gli individui cercano un modo sano di rapportarsi gli uni agli altri. Anche nel mio libro sulla storia del movimento comunista americano, I giardini dei dissidenti (Bompiani) in cui alcuni leggono la fine di ogni speranza per la sinistra, in realtà cerco di mostrare come il desiderio di rendere possibile una forma di comunismo americano sia in qualche modo, incredibilmente, sopravvissuto – com’è evidente dal movimento Occupy Wall Street o dall’esistenza tuttora di una sinistra anticapitalista». 

Comunismo e socialismo però restano termini politicamente tossici in America: basta pensare a come vengono usati dal Partito repubblicano per accusare il Partito democratico – inclusi esponenti centristi come Joe Biden – di essere pericolosi radicali, per spaventare l’elettorato. 
«Viviamo ancora negli anni Cinquanta, la retorica sulla minaccia rossa resta potentissima, e in realtà è più che retorica: è legata a Hollywood, alla creazione di miti, al Sogno americano, al potere della pubblicità, perché l’America è un luogo dell’immaginario e noi siamo ebbri di storie di conquista e di moralismo ipocrita. La gente vive nei film. Questo è diventato palese quando è stato eletto presidente Ronald Reagan». 
Lei considera una vittoria progressista il fatto che Kamala Harris stia per insediarsi come prima vicepresidente donna e nera degli Stati Uniti? 
«Non sono incapace di commuovermi di fronte al potere della rappresentanza. Da bambino ricordo quanto fosse entusiasta mia madre per la candidatura alla presidenza di Shirley Chisholm (la prima donna nera a correre, nel 1972, per la nomination in uno dei due partiti principali negli Stati Uniti, ndr)...». 
Chisholm è anche uno dei modelli citati da Kamala Harris. 
«E di Kamala Harris apprezzo anche la personalità, come apprezzavo quella di Obama. Tuttavia allo stesso tempo, dietro tutto questo, vedo un’operazione che ripaga il desiderio di un’autentica politica progressista in America con la politica della rappresentanza, ovvero mettendo nei ruoli chiave dell’Amministrazione donne e persone di colore che però sono anche profondamente legate alla vecchia politica, al militarismo, all’adorazione delle banche e delle multinazionali. Non sono un esperto su Harris e non mi sembra che lei sia la peggiore tra tutti, ma di certo non è Bernie Sanders. D’altra parte nemmeno Shirley Chisholm era Angela Davis: non chiedeva il rovesciamento del capitalismo, però all’epoca veniva vissuta come una voce rivoluzionaria. Anch’io rispondo alla bellezza della novità, come mia madre davanti a Chisholm, però sono combattuto». 
Nel suo romanzo, i sopravvissuti appartengono a due gruppi distinti, ma entrambi estremi: da una parte gli agricoltori hippie e dall’altra le milizie. 
«La milizia però è resa impotente dal fatto che le armi da fuoco, sulla base delle quali definisce la propria identità, nel romanzo non funzionano più». 
Al trumpismo non si fa riferimento esplicito, anche se il romanzo è stato scritto nell’era Trump. Perché? 
«È fin troppo facile criticare lo slogan trumpiano Make America Great Again, ma mi chiedo se Biden sia in grado di fare qualcosa di più che proporre una sua versione della stessa idea. Il suo slogan potrebbe essere  Build Back Better (ricostruire meglio)? È un sollievo che Trump non sarà più alla guida, ma la storia di questi quattro anni, culminata nella pandemia e nell’invasione del Campidoglio, è che la maschera è caduta: non si può più ignorare la forza distruttiva del capitalismo e del dominio delle multinazionali, la catastrofe ecologica, la violenza e le diseguaglianze che hanno causato, non si può non vedere che stanno travolgendo i nostri corpi come una supercar. Non si può più credere alle scuse per cui sarebbe possibile un capitalismo egualitario e la governance globale delle élite potrebbe essere controllata e portarci gentilmente per esempio verso l’energia solare, senza però distruggere i piaceri del consumismo e le fantasie della predominanza culturale bianca che sembrano normali, ma non lo sono affatto».
Gli scrittori sono parte del problema? In un’America che vive nella nostalgia dei miti, è una vostra responsabilità costruire un futuro diverso.
«La creazione di miti è un processo seducente, ma devi chiederti che tipo di storia stai creando, di che cosa stai diventando complice. Costruiamo sogni sociali senza un vero esame delle conseguenze. I sogni che Steven Spielberg vuole che tu abbia sono diversi da quelli di Stanley Kubrick. Io non ho certo le risposte, sono partecipe e consumatore di questa esperienza. Ma alla fine mi associo al protagonista, Journeyman (il viaggiatore, ndr), e ai corvi sulla torre, nel ritenere che siamo stanchi delle vecchie storie, abbiamo bisogno di sentirne di nuove».