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 2021  gennaio 10 Domenica calendario

Razzismi di lotta e di governo

Il presidente (uscente) degli Stati Uniti – il Paese che si considera modello e protettore della democrazia mondiale da almeno un secolo – scende in piazza a sostegno della rivolta contro il suo successore messa in atto da un’organizzazione neofascista, dichiaratamente razzista, da tempo nel mirino dell’Fbi. Chris Wray, avvocato, 54 anni, nominato da Donald Trump alla guida del Federal bureau il 2 agosto 2017, ha avvertito già mesi fa il Congresso di Washington: gli estremisti violenti della supremazia bianca sono la maggiore minaccia in fatto di terrorismo interno.
Il leader (disperato) invita i suoi attivisti all’azione: sfidare con la forza un Parlamento che sta per ratificare i risultati di un’elezione che lui continua a considerare truccata anche dopo tutti i riconteggi e i pronunciamenti di decine di giudici, in gran parte repubblicani, che non hanno individuato alcuna irregolarità nel voto di novembre. Così mercoledì 6 gennaio parte l’assalto al Campidoglio di Washington e la democrazia americana vive la sua giornata più nera. 
Si può provare a liquidare il gesto compiuto da Trump nel pomeriggio dell’Epifania come la reazione (appunto: disperata) di un uomo patologicamente ossessionato dalla sconfitta elettorale appena subita, disposto a tutto pur di allontanare da sé quello che lui ha sempre presentato come un marchio d’infamia: essere un loser, un perdente. Ma bisogna ricordare che il presidente repubblicano i Proud Boys li aveva sdoganati già quattro mesi fa in un dibattito elettorale con il suo avversario Joe Biden: il suo celebre  stand back, stand by era un invito a temporeggiare restando pronti all’azione.

Ormai quasi fuori dalla Casa Bianca, Trump si lascia comunque dietro, oltre a una democrazia e a istituzioni ridotte in macerie, anche uno straordinario mutamento del clima e della cultura politica americana. Se a sinistra le violenze della polizia contro i neri hanno dato forza e popolarità al movimento Black Lives Matter, a destra i gruppi razzisti, i fan della supremazia bianca e i movimenti secessionisti, sempre esistiti ma limitati e semiclandestini, ora si moltiplicano, fanno proseliti, operano orgogliosi alla luce del sole: Proud Boys, appunto, sfacciati fino al punto di invadere le aule parlamentari a volto scoperto, facendosi selfie sul podio di presidenti e speaker di Camera e Senato. Sono l’avanguardia di un movimento squadrista ormai forte di oltre cento milizie paramilitari.
Un tempo limitati al profondo Sud, questi gruppi paramilitari hanno fatto proseliti, si sono diffusi in tutta l’America, dall’Oregon al Michigan, e adesso minacciano di diventare una presenza stabile anche nelle strade di Washington. Perché, come ha affermato il capo dei Proud Boys, Enrique Tarrio, nella straordinaria intervista di Viviana Mazza pubblicata sul «Corriere della Sera» il 5 gennaio, «Trump non è più una persona, è un movimento». Che continuerà a condizionare la politica americana anche quando sarà ormai lontano dalla Casa Bianca.
L’uomo è ostinato e imprevedibile: potrebbe ricandidarsi nel 2024 (come ha ipotizzato il romanziere Scott Turow in un lungo testo per «la Lettura» #469 del 22 novembre 2020) scagliandosi tutti i giorni contro Biden «presidente impostore» e mantenendo il controllo di un Partito repubblicano sempre più radicalizzato, che lui ha desertificato nei suoi quattro anni di presidenza. Ma potrebbe anche assumere un ruolo più defilato o addirittura eclissarsi, se l’attacco alla democrazia dei giorni scorsi incrinerà le certezze dei conservatori che fin qui l’hanno appoggiato.

In ogni caso Trump – che può già trovare degli eredi, come il senatore del Missouri Josh Hawley – si lascia dietro una rivoluzione culturale della destra (con annesso stravolgimento della psicologia politica e della percezione della realtà) nella quale la spavalderia estremista si moltiplica e alza la testa: «Eravamo 22 mila, ma grazie a Trump siamo raddoppiati in pochi mesi», ha detto Tarrio. Nel frattempo le cellule dei movimenti paramilitari si moltiplicano ovunque. Non solo rivendicano le loro tecniche sovversive (i Proud Boys ammettono la violenza come strumento di lotta politica), ma additano al pubblico disprezzo i conservatori moderati rispettosi delle istituzioni, che concepiscono la politica come ricerca di interessi comuni da conciliare con la mediazione. Chi non sale sulle barricate – l’assalto al Congresso fa capire bene che non si tratta di una metafora – viene bollato come un Rino (Republican In Name Only), cioè repubblicano solo di nome: un marchio d’infamia che lo stesso Trump da tempo scaglia contro chiunque osi contraddirlo.
Ma dietro il presidente uscente e le continue eruzioni dei suoi tweet c’è un mondo che ha ricominciato a credere che sia possibile rilanciare la cultura della supremazia, o anche solo dell’identità separata dei bianchi, contro tutti i multiculturalismi: una rivoluzione culturale iniziata quattro anni fa con l’insediamento di Trump (subito il muro ai confini con il Messico e i provvedimenti per bloccare l’immigrazione, soprattutto dai Paesi musulmani) e che ha avuto il suo momento fondante nel raduno della destra tenuto a Charlottesville il 12 agosto 2017.
Nato dalla volontà di contestare la decisione della città della Virginia di rimuovere la statua di Robert Lee, il famoso generale che guidò l’esercito della Confederazione del Sud durante la Guerra civile americana, il raduno chiamato Unite the Right Rally sarà ricordato per i disordini, per la contromanifestante di sinistra uccisa da un’auto scagliata da un suprematista bianco contro la folla, per le sortite di Trump. Il presidente prima condannò gli aggressori, poi azzardò un’equivalenza tra estremisti razzisti e manifestanti della sinistra radicale, conquistandosi per questo il plauso di David Duke, storico capo del Ku Klux Klan.

Da un punto di vista organizzativo Charlottesville fu un fallimento, ricorda ora Sam Dickson, avvocato di Atlanta, in quella Georgia che ha appena eletto due senatori democratici garantendo a Biden la maggioranza al Congresso: 74 anni, intellettuale e storico organizzatore dei gruppi dell’identità bianca, questo antisemita fu uno dei promotori del rally nella città universitaria della Virginia. «La Lettura» l’ha incontrato nella sua casa di Ridgeland Way: un luogo molto citato dai siti antifascisti che lo indicano come sede per le riunioni di personaggi e organizzazioni razziste. Unificare movimenti e milizie guidati da leader animati da un forte individualismo si rivelò subito impresa impossibile. Ma, pur nella frammentazione delle falangi e nella diversificazione degli obiettivi e dei metodi di lotta, da allora i movimenti della supremazia bianca non hanno fatto che crescere e hanno cominciato a rivendicare pubblicamente la loro legittimità.
Lo hanno fatto all’ombra dell’appoggio informale garantito dalla Casa Bianca di Donald Trump (assai più esplicito il sostegno del suo consigliere più fidato, Stephen Miller, pasdaran della lotta contro gli immigrati; e altrettanto esplicite le sortite dell’ideologo Steve Bannon, stratega della vittoria elettorale di Trump nel 2016), mentre la teoria cospirativa del «complotto per il genocidio dei bianchi», un tempo delirio di pochi, è diventata una tesi «ragionevole» secondo una parte non irrilevante del mondo conservatore. Parliamo dell’idea che la «razza bianca» sia destinata a diventare minoranza negli Stati Uniti (ma, prima o poi, anche in Europa), non per naturale evoluzione demografica, ma per una congiura che avanza in modo sotterraneo attraverso l’accettazione dell’immigrazione e del multiculturalismo e la moltiplicazione dei matrimoni misti, dell’aborto e dei sostegni offerti alle minoranze etniche grazie a diffuse forme di affirmative action.

Sam Dickson non ama le milizie paramilitari, non ha nostalgie schiaviste, ma non considera la parola razzista un insulto. «Semplicemente – afferma – bisogna prendere atto che il progetto di riconciliazione di Martin Luther King è fallito. Bisogna, quindi, trovare un modo pacifico di separare le etnie». Dickson ammette di non voler convivere con gli afroamericani, sostiene che questa sua ostilità è nata più di mezzo secolo fa quando, studente universitario, manifestò in favore dell’autoproclamata repubblica razzista della Rhodesia, nell’Africa meridionale («era una ragazzata, ma arrivò la polizia nel campus, fui interrogato e cacciato dall’ateneo») e non si pente di avere difeso, in tribunale, il Ku Klux Klan: «Non ne ho mai condiviso le idee, ma sono avvocato e anche loro avevano diritto ad averne uno. All’inizio rifiutai di difenderli: avevo clienti neri ed ebrei che non volevo rischiare di perdere. Quei tipi l’avevano fatta grossa, ma in quel momento erano dei ragazzi smarriti: detti loro i nomi di altri avvocati. Dopo qualche settimana tornarono da me. Erano stati respinti da tutti gli studi legali. A quel punto decisi di difenderli».
Oggi l’impegno di Dickson è soprattutto quello di fare proselitismo per una nuova secessione: «L’America non è mai stata una vera nazione. Forse lo fu per un breve periodo nella prima parte dell’Ottocento, ancora prima della Guerra civile. Poi è diventata solo una federazione d’interessi: etnici e finanziari. Ora il più attivo è un gruppo etnico congenitamente ostile alla mia razza bianca, alla mia religione e alla mia cultura. È un’ideologia ostile che ormai pervade cultura e politica in America. Questo Paese è predestinato ad andare in pezzi. Sta morendo di diversity, come la Bosnia-Erzegovina». 
L’ideologo razzista non sa spiegare come potrebbe essere fatta – anche se ci fosse un accordo – una secessione su base etnica: come si può convincere una parte della popolazione di uno Stato a migrare per creare un altro Stato etnicamente più omogeneo? Dickson non ha una soluzione, ma è convinto che l’elezione di Joe Biden accelererà tutti i processi. Non sa come, ma sostiene che è tempo di muoversi «per diventare post-americani».

Il caposcuola dei secessionisti, Donald Livingston, docente di Filosofia della Emory University e fondatore dell’Abbeville Institute, un centro di ricerche dedicato allo studio e alla diffusione della cultura e delle idee politiche sudiste, è più moderato. Vuole anche lui dividere l’America, ma non su basi razziali: pensa piuttosto a una separazione legata a criteri geografici e socioeconomici. Spiega a «la Lettura» che la secessione del Paese è già nei fatti, con la divisione tra città e Stati blu e rossi, democratici e repubblicani. E sostiene che la guerra di Secessione non fu combattuta per eliminare lo schiavismo, comunque destinato a scomparire, ma per impedire agli Stati del Sud di separarsi dal Nord. Un diritto previsto altrove: ad esempio in Canada, dov’è ammesso dalla Costituzione (ci vuole anche un referendum confermativo). «Il modello al quale mi ispiro – dichiara Livingston – è quello svizzero della divisione in cantoni, ma non penso certo che ci arriveremo domani. Ho cominciato a pensare che l’operazione sia possibile quando, nel 1991, si dissolse l’Unione Sovietica. Ma intanto è importante che venga riconosciuto il diritto alla secessione. Era previsto all’inizio dell’Ottocento, nell’America di Thomas Jefferson, poi arrivò Abraham Lincoln che negò la sovranità degli Stati. Venne diffusa la falsa narrazione di un Sud pigro che voleva continuare a vivere di rendita grazie al lavoro degli schiavi neri: invece allora il Sud era più ricco. Aveva il legittimo desiderio di separarsi dall’Unione, ma venne invaso dal Nord. Agli americani è stata raccontata per un secolo e mezzo una storia diversa».
Eppure, ancora una decina d’anni fa, anche un ultraconservatore come il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia sostenne che il discorso sulla secessione era stato chiuso per sempre dalla Guerra civile vinta dagli unionisti. «Non è così», replica Livingston, che poi cita sondaggi come quello di Zogby, secondo il quale attualmente il 39 per cento degli americani è favorevole alla secessione, mentre un altro 25 per cento si dichiara possibilista: «I nostri concittadini sono stanchi della dittatura federale».
Livingston pensa alla secessione in una logica di difesa dei valori conservatori, ma sostiene che la causa ha molti sostenitori anche a sinistra: «Pensate a Calexit, il movimento per l’indipendenza della California nato dopo l’elezione, quattro anni fa, di Trump; o ancora alle tentazioni secessioniste del New England progressista nel 2000, quando Al Gore fu battuto sul filo di lana da George W. Bush».
Ma oggi anche la cultura secessionista, come quella razzista della supremazia bianca, si sta diffondendo soprattutto nell’area di destra: un movimento di neoconfederati decisi a resistere al «tiranno federale» che, con la vittoria elettorale del Partito democratico, ha attirato anche un leader nazionalista come il popolarissimo conduttore radiofonico Rush Limbaugh. E che è diventato l’ultimo rifugio di Ken Paxton, ministro della Giustizia del Texas, che ha commentato così la sentenza della Corte Suprema che ha respinto il tentativo di questo grande Stato del Sud di capovolgere l’esito delle elezioni presidenziali: «Non ci resta che la secessione». Lo stesso auspicio, stando ai racconti di chi ha seguito le manifestazioni di questa settimana a Washington, è stato espresso da molti attivisti trumpiani scesi in piazza.