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 2021  gennaio 09 Sabato calendario

Intervista a Tania Cagnotto

Per tuffarsi da un trampolino ci vuole coraggio, per scendere ancora di più. Se ti chiami Tania Cagnotto quell’asse traballante capace di spingerti al cielo o di farti sprofondare, è la trave portante della tua vita, almeno fino ai 35 anni. Dopo un’esistenza passata a buttarsi in nome della passione di famiglia, ormai entrata nel sangue, ha deciso che ne aveva abbastanza. Vuole stare con i piedi per terra.
Il 2021 è il primo anno davvero senza tuffi e lei ha iniziato a gareggiare da bambina. Che cosa le mancherà?
«Le forti emozioni. Buffo: sono anche quelle che mi hanno stancato. È strano da spiegare, ciò che più mi ha motivato e che mi resta dentro è anche il tormento da cui non ho più voglia di passare. I due sentimenti si contrastano, si annullano».
Assomiglia all’equilibrio.
«Non mi ha mai spaventato l’idea di smettere. Non sapevo se avrei capito quando era il momento. Poi mi sono ritrovata a immaginare mia figlia Maya mentre mi vedeva in competizione. Per qualche ragione non mi tornava e allora stop. La seconda gravidanza è arrivata in concomitanza a questi pensieri. Tempismo perfetto».
Come racconterà alle sue figlie che cosa faceva?
«Maya lo sa già, cioè crede che per mestiere in casa si facciano capriole. Anche il suo papà. Ora sono incinta e quando chiede i salti le dico di andare da lui».
Ha già selezionato la gara per mostrare dove è arrivata la madre?
«Una delle prime, non si parte dai successi. Da quando ho annunciato il ritiro, continuano ad arrivare video. Tante versioni di me che tornano».
Come si rivede?
«Diversissima, mi chiedo come facessi ad avere quella forma».
Mai avuto problemi di body shaming? Si è sentita valutata per il fisico?
«No. Questo concetto applicato allo sport davvero mi sorprende. Ma che vuol dire? Una che fa sollevamento pesi dovrebbe rispondere a canoni di bellezza da modella che vanno contro ciò che le serve? Lo sport è fatto di sacrifici, chi li metterebbe a rischio per essere come altri desiderano? ».
Eppure molte sue colleghe denunciano di sentirsi sotto costante osservazione.
«Allora per l’anno nuovo auguro a tutte di non farsi condizionare. Essere un’atleta professionista richiede una dedizione assoluta, è già massacrante di suo, senza bisogno di altre pressioni assurde».
Prima Olimpiade a 15 anni, ultima a 31. Quanto è cambiata la percezione delle donne nello sport in Italia?
«Io ero la leader di un movimento, non mi sono mai sentita poco calcolata. Ma posso dire che pur vincendo tanto era difficile ottenere quello che spetterebbe a una professionista affermata. Fino a Londra 2012 mancava un vero team, mi pagavo il nutrizionista da sola, dopo ho ottenuto ciò che chiedevo. Credo anche grazia alla mia consapevolezza. Spero di lasciare questo livello in eredità».
Vuole allenare adesso?
«Vorrei iniziare un progetto a Bolzano, bisogna lottare per avere diritto a una piscina degna. Smetto di competere, non di amare i tuffi».
Un tempo diceva che non avrebbe voluto vedere i suoi figli nella stessa carriera.
«Vero. Ora penso che i tuffi siano uno sport sano, lontano dal doping e non mi dispiacerebbe se li scegliessero però se le cose si facessero serie andrebbero incontro all’ansia da prestazione. Vorrei riuscire a proteggerle e invece so bene quanto quello sia un viaggio solitario».
Consigli per Larissa Iapichino? Promessa del salto in lungo, figlia d’arte come lei, osservata speciale.
«Poretta. Conta costruirsi un’identità propria. Non sarà un’esperienza facilissima».
Lei quando si è emancipata dal nome di suo padre?
«Ci siamo scambiati i piani. Prima ero la figlia di, poi lui il padre di, l’importante è non entrare mai in competizione. È un rischio subdolo che a un certo punto si corre. Noi siamo sempre stati orgogliosi l’uno dell’altro, spero che per Larissa sia lo stesso, anche se è un processo su cui bisogna lavorare per non rovinare il rapporto. Quando passi dal confronto alla condivisione allora il genitore famoso diventa gioia».
Chi deve fare il portabandiera a Tokyo?
«Puntavo su Elisa Di Francisca, ma anche lei ha lasciato la scherma per la seconda maternità. Se fosse Aldo Montano mi farebbe piacere: figlio e nipote di schermidori, tante medaglie, tante lotte. Con la bandiera porterebbe anche una storia. In alternativa torno al nuoto con Gregorio Paltrinieri, un po’ ribelle, indipendente forse lo spirito che serve oggi».
Lei era ribelle?
«L’agonismo ti obbliga a osare dentro una disciplina rigida. Il contrasto crea la magia, se reggi la tensione».
Scelga il suo tuffo più bello.
«Sempre lo stesso ma in due momenti diversi. Il doppio e mezzo rovesciato. A Pechino, quando mi ha dato dei 10 in casa delle cinesi e a Rio, quando mi ha portato sul podio. Doveva essere il mio ultimo tuffo e alla fine, di fatto, è stato quello con cui ho chiuso».
Federica Pellegrini invece insiste, punta alla quinta Olimpiade e ha rifiutato la qualificazione diretta.
«Ha fatto bene, se insegui così tanto un obiettivo devi sentirlo sulla pelle, guadagnarlo in tutto e per tutto. Applaudo quelli che affrontano questi Giochi pieni di incognite. Saranno duri. Ho smesso al momento ideale, non credo che li avrei voluti tra i miei ricordi».